Il giovane medico ne fu vittima in maniera reale.
La sera di quel giorno di metà dicembre del ’45 il dottor Argenteri, nell’abitazione di via Garibaldi 8 in Bollate, stava mettendosi a tavola con i genitori e la sorella Teresina ma squillò il telefono. Erano in pochi a possederlo e lui per necessità professionale era riuscito ad averlo; rispondeva al numero 202 e le chiamate fuori distretto avvenivano tramite un centralino.
Dall’altra parte della cornetta c’era suor Carolina, dell’Ordine di Maria Bambina, che dal piccolo ospedale Caduti Bollatesi chiamava allarmata il dottore. In maniera poco chiara perché concitata dava una notizia: si erano appena presentati due ufficiali delle SS, con altri tre soldati sempre della stessa organizzazione nazista ,su una camionetta tedesca chiedendo con modi spicci del dottore e facendone anche il nome. Sottolineava come l’italiano dell’ufficiale fosse perfetto. Completamente impaurita, aveva indicato dove trovare il medico alla sua abitazione e voleva quindi metterlo in guardia. Aveva immediatamente anche fatto avvertire di cosa stesse succedendo il parroco, don Carlo Elli.
Più l’Argenteri chiedeva alla suorina spiegazione per comprendere i dettagli di una situazione incomprensibile e più questa andava in confusione fino arrivare al pianto; l’unica frase chiara fu” dottore stanno arrivando i tedeschi “.
Il giovane medico non riusciva a capire cosa stesse succedendo: quella paura provata per quasi due anni e quei fantasmi con le SS argentee ebbero allora il sopravvento sulla ragione. Subentrò il panico e pensò che doveva fare in fretta qualcosa; stavano arrivando. Il padre il dottor Felice, il veterinario del paese, prese allora in mano la situazione: il ricercato fu mandato a nascondersi con la sorella Teresina in cantina, dove era anche presente una latrina per i periodi dei bombardamenti, mentre la mamma Anna, maestra, fu inviata sul grande terrazzo della camera da letto sul fronte casa. In tal modo si dominava dall’alto il giardino e le due entrate con i relativi due cancelli su via Garibaldi. Il dottor Felice poi, con la sua pistola d’ordinanza ( una Bodeo a tamburo ) da ufficiale veterinario del Savoia cavalleria nella grande guerra , si appostò tra i grossi pini vicino al cancello principale.
Il dottor Antonio, insieme alla giovane sorella, si sistemò in cantina nella carbonaia, il locale più buio.
Da un lato comprendeva chiaramente che tutta la situazione era irreale ma dall’altro la paura alterava in maniera determinante la ragione. Arrivò perfino a sospettare un improvviso ritorno dei “crucchi”; non aveva sentito la radio e comunque i pazienti del pomeriggio in ambulatorio non gli avevano riferito nulla. In tal caso si domandava quali fossero le motivazioni recondite da giustificare l’evento diretto dei tedeschi alla sua persona. Si diede una risposta: forse perché come medico aveva collaborato con il colonello Pietro Testa, comandante dei prigionieri italiani, alla stesura di un documento indirizzato, dopo la liberazione del campo, alle autorità britanniche in cui si denunziavano quali criminali di guerra il cap. Rorich, il cap. Lainbergher, il cap.von Mallerius, il cap.Giutler, i sonderfurer Ales e Huss, il caporale Strassmager. Nel documento venivano ampiamente riportate le violazioni alle norme internazionali per i prigionieri e i delitti commessi. Il documento invitava anche ad un’indagine su un cimitero adiacente al campo con fosse comuni per un totale di circa 30000 corpi per una struttura di accoglienza che non poteva ricoverare più di 20000 prigionieri.
Si ricordò anche che era stato tra i 44 ufficiali che, il 18 febbraio del ’45, si erano rifiutati di lavorare nella vicina Dedelsdorf al ripristino di una pista di lancio; il fatto gli aveva procurato dieci giorni di “ straflager”, un regime di punizione pesante.