Nel 1996 scoccava il cinquantenario di un film che ebbe la sua importanza nella Storia del Cinema Italiano del dopoguerra, “Il sole sorge ancora” di Aldo Vergano. Era notevole per tanti motivi, a partire dal fatto che era prodotto dall’ANPI, non quindi da una casa di produzione professionista e tradizionale; si inquadrava cioè in quello spirito rinnovatore, anzi: rivoluzionario, che animava la nuova società che i vincenti, le forze partigiane e democratiche, volevano edificare sulle macerie della vecchia società, fascista-monarchico-padronale. Era un film che oggi definiremmo “neorealista”, a suo modo, se non fosse per i robusti riferimenti al genere popolar-melodrammatico, eccessivo e delizioso, su cui fondava il nostro comune immaginario culturale.
Ma per Bollate il film aveva una particolare importanza. Era girato a Castellazzo, in gran parte negli stessi luoghi che poche stagioni prima erano state teatro di sanguinosi scontri tra nazifascisti e i “ribelli”. Era girato con comparse contadine che avevano ancor forti nella memoria quei fatti e un cast che riuniva professionisti delle scene (Massimo Serato, premiato per questo con un Nastro d’Argento, Lea Padovani, Elli Parvo, Checco Rissone) con giovani intellettuali di area comunista ed ex partigiani, entusiasti di partecipare a un’avventura così ricca di prospettive artistiche e culturali. Tra questi (Gillo Pontecorvo, Alfonso Gatto) spiccava un magro, lungo, ossuto e serioso giovanotto che fu scelto per fare il sacerdote, destinato a immolarsi sotto il fuoco fascista. Era Carlo Lizzani e avrebbe avuto davanti un grande e luminoso futuro proprio nel campo del cinema, da lui vissuto a 360 gradi, come attore, sceneggiatore, regista, ma anche come critico, scrittore, giornalista e operatore culturale.
Con queste premesse, in occasione dell’anniversario, fui contattato dalla mia amica Chiara Genovese per chiedermi se volevo partecipare a una serata speciale al cinema Splendor, con proiezione de “Il sole sorge ancora” alla presenza di Lizzani e con me in funzione di intervistatore esperto (da anni lavoravo a Ciak come caposervizio e critico cinematografico). Ovviamente accettai subito, non solo per compiacere un’amica, ma anche perché tante cose mi allettavano: con Lizzani avevo qualcosa in comune a partire dalla passione politica e poi Castellazzo che distava a quattro pedalate di bicicletta da casa mia e quindi meta di tante zingarate “avventurose” a partire dalla mia prima adolescenza.
Così, dopo una cena in pizzeria ad Arese e quattro chiacchiere con un Lizzani che si rivelò subito di impeccabile cortesia (di cosa parlammo? Del film, di cinema, di politica, quasi a sciogliersi senza grosso impegno prima dell’ufficialità), ci trovammo sul palco dello Splendor, su due sedie, a sala strapiena. Io introdussi il cineasta al pubblico (come se ce ne fosse bisogno!), insistendo sul fatto che, accanto, non avessi solo una personalità che era parte attiva della colonna vertebrale del nostro cinema, ma di un intellettuale la cui curiosità e la sua cultura spaziava a 360 gradi, ricordando ad esempio l’importanza dei suoi libri di storia del Cinema e il suo lavoro come direttore della Biennale. Lui, dal canto suo, con la consumata chiarezza di chi sa stare non solo dietro la macchina da presa ma anche davanti a un pubblico più o meno di conoscitori (e non è cosa assolutamente scontata), parlò di quegli anni, dell’emozione personale che visse osservando ad esempio come la sua recitazione nei panni dell’eroico e sventurato don Camillo trovasse una imprevedibile risposta totale nelle comparse contadine che, come un rito, rivivevano con fervore “quasi isterico” gli avvenimenti di qualche anno prima. Fu una serata che inevitabilmente produsse grandi emozioni e segnò per me uno dei punti più appaganti della mia carriera giornalistico-cinematografica.
Massimo Lastrucci