GIOCHI DI RAGAZZI

Le armi non convenzionali delle vacanze estive

“Le estati dell’infanzia sono sempre migliori delle estati dell’età adulta” (Elliot Perlman)

L’agognata ultima campanella suonava intorno a metà giugno, terminavano finalmente le scuole. Fino al primo di ottobre, giorno di San Remigio (e della “liberazione” secondo molte madri: la mia, ad esempio, faceva cantare il “Te Deum), era vacanza, tre mesi di libera uscita per tutti gli scolari.

Per noi ragazzi della via Pontida, la lunga estate bollatese significava un sacco di tempo libero, tutto da godere, indifferenti al caldo e all’afa del solleone.

Alla nostra epoca, fine anni Sessanta- primi Settanta, non si parlava di ferie, di villeggiatura, di viaggi in località più o meno esotiche, eravamo semplicemente “a casa da scuola” e tanto ci bastava. Qualcuno si trasferiva per una manciata di giorni da parenti che vivevano perlopiù in paesi di campagna (pochi fortunati al mare del sud dai nonni) e , quando tornava, raccontava quel breve soggiorno quasi avesse vissuto l’avventura del secolo. Ma erano casi sporadici.

Per la maggior parte c’erano le colonie estive, mitica quella legata allo stabilimento Alfa Romeo (diversi genitori dei ragazzi di via Pontida lavoravano nello stabilimento di Arese), ma duravano tre settimane. E poi, naturalmente, l’oratorio estivo , chiamato familiarmente feriale, con le molteplici iniziative di svago e gioco, con ragazzi e bambini suddivisi nelle quattro squadre dei Ghepardi (fascia rossa), Apaches (gialli), Comete (blu) e Vittoria(verde), che culminavano nel gran finale del mercato degli indiani, dove si spendevano i dollari guadagnati nelle varie prove ludiche che andavano dalle sfide a Castellone, nel campo a undici dell’Ardor, alla caccia ai numeri, nel boschetto che sorgeva allora nei pressi del passaggio a livello di Traversagna, fino ai tornei di calcio o alle gare di nuoto al Gabbiano di Città Satellite.

Per noi di via Pontida, andare all’oratorio non era proprio comodissimo. Bisognava attraversare tutto il paese, inoltre, detto fra noi, nella nostro rione, il celeberrimo Masenoeu, non mancava proprio niente, avevamo a disposizione tanto verde, i limitrofi campi e boschi, la piscina naturale, l’acqua corrente delle sette cascate per trovare refrigerio e, per le escursioni in bicicletta, il vicino Castellazzo, coi suoi ruderi di antiche fornaci da adibire come fortini o trincee per i giochi di guerra; era davvero il nostro piccolo mondo. E poi eravamo in tanti e qualche cosa da fare lo si trovava sempre. La noia non era proprio contemplata.

Erano gli anni nei quali, nel nostro immaginario collettivo di adolescenti che si aprivano alla vita, imperavano ancora le gesta degli eroi da combattimento, i nonni e i papà ci raccontavano della guerra, loro l’avevano fatta o vissuta; al cinema si proiettavano i grandi film western, in quelle epiche pellicole tutti giravano armati nelle eterne disfide tra cowboys e indiani, e cosi noi ragazzini non potevamo non esserne contagiati. Ergo, bisognava essere armati. Girava in quel periodo una barzelletta sulla fantomatica “pistola vera”, tanto ingenua allora e tanto pericolosa adesso, e dunque ci si attrezzava per passare un’ estate all’insegna dei combattimenti tra bande.

La prima arma non convenzionale che tutti dovevamo possedere era il tirasassi, impropriamente chiamato fionda.

Il tirasassi non era altro che una forcella in legno ad Y, sulle punte erano legati gli adeguati elastici e la fondina di carica.

La forcella di legno ad Y la si poteva trovare setacciando adeguatamente le siepi lungo il Pudiga. Doveva avere la forma ad Ypsilon il più regolare possibile ed essere robusta. Una volta trovata, si passava alla ricerca degli elastici e qui iniziavano i problemi. Le camere d’aria vecchie delle biciclette e dei motorini, i celeberrimi budelli, erano l’ideale, con una sola problematica: dovevano essere quelle rosse, elastiche e potenti. Quelle nere erano inutilizzabili, legnose, troppo spesse, non avevano le caratteristiche necessarie.

Ci si metteva quindi alla ricerca. Mete principali della nostra caccia erano il ciclista Verga, ubicato dove adesso c’è la farmacia Comunale 4, ed il Lincetti, che aveva la bottega di vendita e riparazione cicli nel cortile di via Leone XIII prima della chiesa. Entrambi burberi, appena ci vedevano già sapevano quale sarebbe stata la richiesta e ci respingevano senza neppur farci finire di parlare, tuttavia eravamo vaccinati a questo loro atteggiamento di diniego, al rifiuto iniziale partiva un assedio implorante che spesso, alla fine della giornata, dava i suoi frutti. Presi per sfinimento, dal bidone dell’immondizia tiravano fuori l’agognato budello rosso, che noi orgogliosi portavamo a casa con mille ringraziamenti.

Ultimo step era la fondina di carica. Doveva essere di cuoio, morbida e giustamente dimensionata. Mica facile. Il cuoio lo si poteva trovare nei guanti da lavoro, ma erano un bene prezioso allora e nessuno osava portarli via al papà o allo zio. Si ripiegava quindi sui talloni delle vecchie scarpe, sovente usate dal nonno per fare l’orto: le calzature per curare le aiuole seminate a insalata e prezzemolo potevano anche essere tranquillamente utilizzate senza tallone, a mo’ di ciabatta, e forse risultavano pure più comode. Questa era una buona pratica, anche se spesso i nonni non erano d’accordo, ma tant’è, ormai il danno era fatto.

Con tutto il materiale necessario si poteva completare il tirasassi. Tutti dovevamo averne uno posto nella tasca posteriore dei pantaloni. Rompere almeno un vetro, giocando con questo attrezzo, faceva curriculum, che veniva rafforzato in base alla conseguente dose dilegnate” o sgridate subite a causa dello splash. Nonostante questi rischi, il tirasassi rimaneva un oggetto irrinunciabile!

La seconda arma non convenzionale aveva invece antiche e nobili origini: l’arco e le frecce! Anche se meno usato, per noi ragazzi della via Pontida era quasi indispensabile. Non si andava molto per il sottile, ma doveva avere una caratteristica ben precisa: le frecce scagliate dovevano necessariamente impiantarsi negli alberi altrimenti era roba da lattante. Se per realizzare l’arco qualsiasi ramo flessibile andava bene, così come per il pezzo di spago che fungeva da corda e come pure per i rami dritti di sambuco per le frecce, il problema nasceva per la punta. Abbandonata la iniziale lavorazione della pietra, troppo fragile e che faceva troppo bollatesi di Neanderthal, si passò direttamente all’età del ferro, modificando i chiodi presi “in prestito” dai cantieri del vicinato. I chiodi, chiamati “punta Italia”, venivano“lavorati” grazie al supporto del vicino passaggio a livello di Traversagna: posizionandoli sulle rotaie un po’ prima del passaggio del treno venivano schiacciati in maniera perfetta, secondo le nostre aspettative, dal transito del convoglio, bisognava solo capire dove ricadevano, belli caldi ed affilati come lame e, nel raccoglierli, stare attenti a non scottarsi o pungersi. La situazione ideale era quella dei chiodi “lavorati” in fase di frenata dagli omnibus perché quelli che finivano sotto i diretti, a causa della loro elevata velocità , venivano sbalzati lontano ed erano sovente irrecuperabili.

La terza e forse più importante arma non convenzionale rimaneva però la pistola sparagrani, anche nella sua variante a fucile, soprattutto perché credo sia stata un’ invenzione prettamente bollatese, non avendo io mai trovato un riscontro simile in altri paesi della zona.

La pistola sparagrani derivava direttamente dalla sua omonima sparaelastico ma con una sostanziale differenza nelle munizioni: sparava infatti chicchi di granoturco, reperibili nei campi seminati a pannocchie o stesi ad essiccare sulle aie, anziché dei banali e costosi elastici.

Per la costruzione si partiva da una tavoletta di legno, sempre presa “in prestito” in qualche cantiere, si disegnava a matita la sagoma di una pistola poi, con un sega, la si ritagliava. I più raffinati la lisciavano con la carta vetrata. Si applicava quindi, fissandola alla punta, una bandella di elastico

rosso, come quello del tirasassi, largo circa 2 cm (il classico budello delle camere d’aria delle biciclette), in fondo si metteva un chicco di grano, lo si fermava tenendolo fermo col pollice. Per sparare bastava  mollare la presa, era a carica immediata. Esisteva però, tramandata dai ragazzi più grandi, anche la variante con la molletta per bucato, rigorosamente in legno: il chicco di grano veniva rilasciato premendo la molletta fissata al calcio della rivoltella. Da noi però era poco usata, ritenevamo infatti che si perdesse in potenza in quanto la molletta mal sopportava carichi eccessivi dell’elastico.

Si formavano le squadre, le munizioni, cioè i chicchi di grano, si recuperavano dalle pannocchie del campo del Tosi e via con epiche battaglie che l’attuale soft air manco si sogna. Qualche gibollo (ematoma era una parolona), qualche lacrima, un po’ di imprecazioni per essere stati colpiti in maniera dura, ma alla fine era tutto nella norma.

Il primo di ottobre arrivava sempre troppo presto!

Dario Galli -uno dei ragazzi di via Pontida-

LA MIA CACCIA AL BUDELLO

La mia entratura come figlio del medico condotto, mio papà Antonio, con il Carlo Luini, titolare di una rinomata officina di motocicli in corte sant’Anna in via Magenta e da tutti noi battezzato il mago della Spinetta per la sua capacità di calibrare le biciclette, raggiungeva la massima capacità nei mesi estivi: dovevo infatti riuscire a procurarmi la maggior quantità possibile di budello per la nostra compagnia di amici. Infatti, le camere d’aria inutilizzate perché bucate, i budelli appunto, ci servivano per realizzare le pistole sparagrani e i tirasassi A settembre, uno dei nostri ultimi giochi delle vacanze estive era legato alla raccolta del granoturco. In quel periodo, fine anni Cinquanta, in buona parte del paese veniva steso per terra el furmentun:  parti di strade, piazze e cortili si trasformavano in aie a cielo aperto, erano infatti utilizzate per stendere il granoturco ad essiccare, subito dopo aver terminato l’operazione de”sluassà”, ossia togliere le foglie secche e sgranare le pannocchie. 

Residenti della  corte di Castellazzo  impegnati nella sgranatura delle pannocchie di mais. Il termine dialettale usato per questa  operazione è “sluassà”. Foto © Giordano Minora

A sinistra, la raccolta del fieno. A destra, una macchina trebbiatrice all’opera. Foto © Giordano Minora

I proprietari stavano seduti vicino alla distesa gialla di chicchi e, di tanto in tanto, rivoltavano i grani o con un grande rastrello in legno o con una grossa pala a cucchiaio, sempre in legno. E qui entrava in azione l’ abilità di noi ragazzi: riempirsi le tasche di grani senza farci cogliere sul fatto. Io e il Franco Boniardi, insieme al Giancarlo Realini e al Sergio Guastalla, eravamo maestri in questo sorta di prendi i grani e scappa. Ci servivano come proiettili da applicare alle pistole sparagrani, costruite ritagliando assi in legno, recuperate nei cantieri, sagomate a forma di rivoltella. Di vitale importanza era l’impugnatura, che doveva essere piana e dritta e sulla quale veniva o inchiodata (i chiodini ideali erano quelli che il Galli calzolaio usava per rifare i tacchi alle scarpe), oppure legata con elastici, una molletta di legno (quelle di plastica erano di la da venire). Una fettuccia di camera d’aria veniva invece fissata alla estremità della canna della rivoltella e, una volta tirata con inserito il chicco, veniva immessa nella molletta piazzata sul calcio, schiacciandola il colpo partiva immediatamente. Sparato da vicino faceva anche male. Qualche esperto aveva anche costruito dei fucili a due colpi, ma le pistole erano quelle più facilmente maneggevoli e funzionali. Le camere d’aria servivano anche per costruire il tirasassi: la base era un un segmento di ramo a Y, si legavano alle estremità le fettucce di budello e poi si allungavano inserendo il sasso che successivamente si faceva partire mollando l’elastico di colpo. Ne avrò costruiti una trentina di questi oggetti, ma ogni volta il papà me li requisiva e li distruggeva, adducendo sempre lo stesso motivo: “sono pericolosi, puoi far perdere un occhio a qualcuno”.

Angelo Argenteri

Amedeo Farina, detto “Medeo”, impegnato nell’essicatura del furmentun nella Cort di Moron, dove risiedeva. Foto © Giordano Minora

Il lavoro quotidiano nei campi verso Baranzate di Martino Annoni ,detto “maella”, residente nella Cort di Moron. Foto © Giordano Minora

Originario di Bollate, è nato nel 1948. Unico figlio maschio degli otto del dottor Antonio, medico condotto per antonomasia dell’allora paese, ha seguito le orme paterne in ambito professionale. Specializzatosi a Parigi in chirurgia vascolare, è stato per anni direttore responsabile dell’unità operativa complessa  di questa specialità presso il polo universitario di  Pavia e, successivamente, presso quello di Lodi. Tra gli incarichi ricoperti, è stato titolare della cattedra di chirurgia vascolare all’università di Pavia. Attualmente è componente del nucleo di valutazione dell’azienda ospedaliera di Lodi. E’ autore di diverse pubblicazioni scientifiche in materia di patologia vascolare
ANGELO ARGENTERI

Medico chirurgo