Per noi ragazzi era infallibile ed era un mago; non so chi l’avesse battezzato
il Mago della Spinetta
Soprannome che gli era così rimasto appiccicato addosso tra gli addetti. Il figlio Massimo era il contrario: corpulento, sempre con una tuta azzurra intera con cerniera lunga laterale, stretta in vita con una cintura di pelle (chissà a cosa serviva?) e con elastico nero alle caviglie, ricamata in giallo sul petto un’aquila; era il logo della Guzzi, la “ca’ Gussi “, come la chiamava lui.
Riparava le moto ed ogni spiegazione al cliente era un’impresa perché petegava ( balbettava ) come diceva mio padre. Ma io non lo potevo dire perché tutta la famiglia Luini erano clienti.
Verso i quattordici anni però, pur senza tradire la bici, la fantasia andò al Motom, quello rosso sport con il manubrio piegato ed il sedile da corsa . Se non fosse stato per i pedali sembrava davvero una piccola moto da competizione. Insieme al Vivì, quasi simile, era il mio sogno. E poi si aggiungeva un particolare che mi aveva fatto notare il nonno Felice, protagonista e sempre complice delle mie fantasie: la parola Motom poteva essere letta in ambedue i sensi. Quando qualche Motom era parcheggiato in riparazione, con il permesso del Massimo, vi salivo straiandomi sul serbatoio. Qualche gasato per favorire la posizione corsaiola metteva un plaid ripiegato a salsicciotto sul serbatoio e lo fissava con le cinghie di gomma dei libri di scuola.
Mentre il Carlo, il Mago della Spinetta, ai miei occhi era indiscutibile, anche ascetico, perché trattava qualcosa di perfetto, pulito, essenziale, minimalista e silenzioso come la bicicletta, il Massimo incarnava invece la potenza, l’unto, il rombo ed il manovellismo articolato dei motori. Adesso il Carlo lo vedrei in un quadro giottesco, il Massimo in una tela di Boccioni. Il Massimo ai miei occhi diventava un personaggio quasi mitologico soprattutto durante le gare a circuito del Pedale Bollatese Carlo Moretti, la maglia nera con le scritte bianche ricamate in corsivo.