IL MAGO DELLA SPINETTA

Quando l’artigiano è un artista

Il negozio era alla fine della via Magenta prima della curva a sinistra, ai bordi del Cantun Sciatin; le due vetrine lasciavano vedere le moto esposte, non più di quattro ma con una loro eleganza e dignità lontana dalla volgare pacchianeria delle attuali astronavi a due ruote. La vetrina era anche la porta d’entrata, sopra un’insegna di lamiera dipinta di rosso con la scritta bianca “Carlo Luini, cicli e motocicli”, profilata con un bordino oro, nell’angolo dipinta un’aquila dorata con sotto la scritta “ Moto Guzzi “.

La bottega di Carlo Luini alla fine degli anni 40 – Archivio © G. Minora

La targa della Guzzi che campeggiava sulla porta dell’officina in Corte Sant’Anna – Archivio © G. Minora

Le moto esposte erano tutte rosse, e ai miei  occhi maestose ; tutte con nomi di volatili dal becco gentile: Zigolo, Stornello, Lodola, ed i mitici Cardellino e Galletto. Li conoscevo bene perché il papà verso le 10, quando tornava dal giro visite per iniziare l’ambulatorio del mattino, suonava il clacson in prossimità del cancelletto verde e noi si faceva a gara ad aprire. Chi apriva per primo vinceva il giro: a cavalcioni sul serbatoio del Guzzino (il Cardellino 75 cc ) si veniva portati al garage dietro la casa; l’unico fastidio era la leva del cambio sulla destra del serbatoio. Quando poi venne il Galletto il posto era davanti in piedi sulla pedana ricoperta da un lamierino quadrettato di zinco. Era giallo panna con dipinto un galletto colorato su une delle due paratie anteriori con in mezzo la ruota di scorta.

varie pubblicita modelli anni 50

Modello Galletto – 1950

Quando entravi nel negozio del Luini c’era profumo di gomma misto a quello della vernice a smalto; il profumo di smalto l’ho poi ritrovato, più intenso, quando cominciai con la macchina a frequentare il Tramontini, il carrozziere. All’apertura della porta rispondeva un campanello e seguivano dei passi ciabattanti sulla scala a chiocciola in fondo a sinistra, tutta di legno verniciato di marrone. Era la moglie che scendeva. Io entravo raramente e solo per guardare le bici, più numerose delle moto.

 Era l’epoca in cui la mattina presto si vedevano sciami di biciclette; erano quelli che andavano a lavorare a Milano. Ne conoscevo uno, il Fusi, operaio della Pirelli e paziente del papà, che tutte le mattine andava in bici fino alla Bicocca. Come tanti si faceva mediamente quaranta chilometri al giorno, con ogni tempo; del fitness di oggi non ne avevano bisogno.

 Solo uomini; la schiscetta di alluminio legata al manubrio. Qualcuno più evoluto la metteva in una vecchia cartella di scuola, con il vino, in una vecchia bottiglietta di gazzosa con un tappo di sughero. La cartella era appesa al tubo orizzontale della bici. Le bici erano tutte le classiche nere con freni a bacchetta, tutte con il portapacchi posteriore ed un archetto di ferro tra i tubi del telaio sopra la pedaliera; serviva per sollevarla e portarla sul ballatoio di casa. Qualcuna con il portagiornale a molla al centro del manubrio ed una copertura in plastica nera sulla ruota posteriore ed una in gomma sulla parte inferiore del parafango anteriore; serviva a riparare dagli schizzi.  I mozzi avevano un anello di gomma per tenerli lucidi. I più ingegnosi avevano un primordiale parabrezza trasparente che continuava con una cerata nera anteriore ed un foro centrale per il faretto. Sulla curva del manubrio era montato un anello di galalite (l’antesignana della plastica) con una protuberanza a noce che lo proteggeva quando veniva appoggiato al muro. Adesso sono bici da collezione.

 La bici era per molti l’unico mezzo, faceva parte della dotazione familiare e passava in generazione, come la macchina da cucire.

Fine anni quaranta – piazza Martiri della Liberta – La bicicletta era il mezzo di spostamento piu’ diffuso tra i bollatesi – Archivio © Origgi/Mesini

Quelle dei nostri sogni erano le sportive. In casa avevamo una Luini azzurra da usare in tre, più tardi da ragazzo il sogno diventò la sportiva con cambio. Il top per me era la Legnano gialloverde metallizzata con manubrio piatto, lo chiamavano Condor sport, e cambio Campagnolo o il Simplex che per me era il massimo perché era francese e lo usava Anquetil, il mio idolo.

Quando sono riuscito ad avere la Legnano feci una malattia per il manubrio da corsa, ma il papà non ha mai voluto perché diceva che pedalare con la testa china era pericoloso. Con la bicicletta facevamo di tutto, soprattutto nei giorni di vacanza perché era il periodo dell’anno in cui si viveva in simbiosi con la bici e il mio vate era il Luini.

 Se dovevo andare dal Luini entravo direttamente nella corte attraverso il portale del cascinale tra il suo negozio da un lato e una cartoleria dall’altro. Nella corte in fondo a sinistra c’era l’officina, stretta e lunga, all’esterno tante bici e le moto in riparazione. Carlo il ciclista, era il padre, Massimo il meccanico delle moto, il figlio. Erano diversi tra loro: il Carlo, magro, pelato con gli occhiali in metallo a lunetta e gli occhi azzurri, sempre con una tuta blu con bretelle sopra una camicia a quadrotti. Quando gli portavi la bici con un problema, la guardava di sbieco, in silenzio e in maniera ieratica, poi con gli occhi socchiusi pontificava diagnosi e terapia.

Storico esemplare di bicicletta da corsa costruita da Carlo Luini – Per gentile concessione Famiglia Luini

Quando gli portavi la bici con un problema, la guardava di sbieco, in silenzio e in maniera ieratica, poi con gli occhi socchiusi pontificava diagnosi e terapia.

Per noi ragazzi era infallibile ed era un mago; non so chi l’avesse battezzato

il Mago della Spinetta

Soprannome che gli era così rimasto appiccicato addosso tra gli addetti. Il figlio Massimo era il contrario: corpulento, sempre con una tuta azzurra intera con cerniera lunga laterale, stretta in vita con una cintura di pelle (chissà a cosa serviva?) e con elastico nero alle caviglie, ricamata in giallo sul petto un’aquila; era il logo della Guzzi, la “ca’ Gussi “, come la chiamava lui.

Riparava le moto ed ogni spiegazione al cliente era un’impresa perché petegava ( balbettava ) come diceva mio padre. Ma io non lo potevo dire perché tutta la famiglia Luini erano clienti.

Verso i quattordici anni però, pur senza tradire la bici, la fantasia andò al Motom, quello rosso sport con il manubrio piegato ed il sedile da corsa . Se non fosse stato per i pedali sembrava davvero una piccola moto da competizione. Insieme al Vivì, quasi simile, era il mio sogno. E poi si aggiungeva un particolare che mi aveva fatto notare il nonno Felice, protagonista e sempre complice delle mie fantasie: la parola Motom poteva essere letta in ambedue i sensi. Quando qualche Motom era parcheggiato in riparazione, con il permesso del Massimo, vi salivo straiandomi sul serbatoio. Qualche gasato per favorire la posizione corsaiola metteva un plaid ripiegato a salsicciotto sul serbatoio e lo fissava con le cinghie di gomma dei libri di scuola.

  Mentre il Carlo, il Mago della Spinetta, ai miei occhi era indiscutibile, anche ascetico, perché trattava qualcosa di perfetto, pulito, essenziale, minimalista e silenzioso come la bicicletta, il Massimo incarnava invece la potenza, l’unto, il rombo ed il manovellismo articolato dei motori. Adesso il Carlo lo vedrei in un quadro giottesco, il Massimo in una tela di Boccioni. Il Massimo ai miei occhi diventava un personaggio quasi mitologico soprattutto durante le gare a circuito del Pedale Bollatese Carlo Moretti, la maglia nera con le scritte bianche ricamate in corsivo.

Carlo Luini, meccanico di fiducia di Pietro Minora, prima di una gara – 1928 – Archivio © G. Minora

Massimo Luini su un modello di moto della “ca’ gussi” – Massimo Luini impegnato in un cambio d’olio nell’officina in Corte Sant’Anna – anni 70 – Per gentile concessione Famiglia Luini

Il circuito era nel paese e il Massimo faceva l’apripista con il suo Guzzone  (il Falcone ), che poi era la stessa moto della polizia stradale. Lo si sentiva e vedeva sbucare dalla curva con i capelli arruffati, ( all’epoca il casco non era obbligatorio ) rosso in viso con un fischietto nero in bocca agitando una bandierina rossa.

Massimo Luini in servizio durante un circuito organizzato dal Pedale Bollatese 1956 – Archivio © G. Minora

Dietro di lui quei matti in bici. Io andavo orgoglioso perché tra di loro c’era il fratello maggiore del Franco Boniardi, il mio compagno di banco, che abitava proprio di fianco all’officina dei Luini. Il fratello corridore era tornitore alla Ceruti e lo invidiavo quando lo vedevo in giro ad allenarsi le sere d’estate con la maglia nera del Pedale Bollatese.

1956 – Prima di una gara in circuito i corridori del Pedale Bollatese portano una corona alla lapide dei Caduti. Fra questi anche Adelio Boniardi citato nell’articolo (primo a destra) – Archivio © G. Minora

Massimo Luini e Giorgio Minora con le loro Guzzi 500 pronti per il servizio di motostaffetta di una corsa del Pedale Bollatese 1975 – Foto © G. Minora

Adesso lo so; il Luini mi sopportava perché ero il figlio del suo dottore. Mediamente lo scocciavo una volta la settimana, mentre con le vacanze estive, complice anche il tempo, ero lì a giorni alterni.

In pratica facevo perdere del tempo a chi doveva lavorare. Mi industriavo anche ad aiutare; ero diventato bravo nell’identificare le forature. In un grosso mastello di zinco pieno d’acqua dovevo immergere la camera d’aria (la chiamavamo il budello) gonfiata e vedere dove comparivano le bolle. A volte era la valvola. Segnavo il foro con una matita copiativa (il pennarello non esisteva) dove poi il Luini operava applicando la toppa.

Quando il Luini faceva i cerchioni restavo incantato: per centrarlo avvitava o rilasciava con un piccolo strumento i dadi che tenevano il raggio al cerchione di metallo. Anni dopo quando vidi a un concerto un violinista registrare le corde mi venne in mente quel gesto del Mago della Spinetta.

La mia entratura con il Mago raggiungeva il massimo nei mesi estivi; dovevo infatti riuscire a procurarmi la maggior quantità di budello per me e tutti i miei amici. Le camere d’aria gettate, il budello, ci servivano per costruire le rivoltelle “sparagrane”.

Era il periodo in cui in paese mettevano steso per le strade, come su un’aia, il furmentùn  ( granoturco ) ad essiccare. I proprietari stavano seduti vicino alla distesa dandosi cambio per curarla e rivoltando ogni tanto i grani con una specie di rastrello in legno o con una grossa pala a cucchiaio, sempre di legno. L’abilità di noi stava nel riempirsi le tasche senza essere visti. Io e il Franco Boniardi, insieme al Giancarlo Realini e al Sergio Guastalla, eravamo maestri. I grani erano i proiettili mentre le rivoltelle erano di legno con varie fogge; l’importante era il dorso del calcio che doveva essere piano e dritto e su cui veniva inchiodata una molletta da panni di legno. I chiodi per fissarle dovevano essere piccoli e corti; l’optimum erano quelli che il Galli, il calzolaio, usava per i tacchi. Anche lì mandavano avanti me perché la moglie del Galli aveva sempre la congiuntivite ed era sempre dal papà. 

Una fettuccia di camera d’aria veniva fissata all’estremità della canna della rivoltella e, con all’interno il grano, stirata e fissata nella molletta sul calcio. Impugnando la rivoltella e schiacciando la molletta il colpo partiva, il grano se sparato da vicino faceva male.

 Il Luini era anche il nostro fornitore di cuscinetti a sfera; provenivano dal Massimo perché erano delle moto riparate e ci servivano per costruirci i carrelli. I carrelli erano un asse di legno cui venivano fissate due sbarre sempre in legno con alle estremità i cuscinetti che fungevano da ruote. La barra anteriore, bloccata con una grossa vite centrale, era mobile e faceva da manubrio. La sua costruzione era un capolavoro di ingegneria meccanica e la collaborazione del Massimo era indispensabile. Si prendeva la rincorsa per strada con il carrello su cui si saltava sdraiandosi a pancia in giù se da soli, seduti accovacciati se in due.

 Poi un Natale, verso i quindici anni, lo zio Chicco mi regalò il Vespino: a me non piaceva proprio con quelle ruotine e quel colorino verdino acqua scialbo. Io continuavo a sognare il Motom sport; il Vespino mi creò qualche complesso con i compagni che avevano motorini più seri. Poi finalmente vennero altre moto vere e la macchina. E così il Mago della Spinetta scomparve dalla mia vita lasciandomi però il dolce ricordo delle due ruote silenziose.

Massimo Luini (primo a destra) accompagna Gino Bartali in occasione di una tappa della Cento Corse San PELLEGRINO svoltasi a Bollate – Massimo Luini con il suo grande amico Umberto Doniselli. titolare di una storica macelleria bollatese 1956 – Archivio © G. Minora

Ho provato ultimamente a passare per rivederlo; quando torno al paese nel giorno dei morti per portare i fiori sulla tomba di papà (la mamma riposa nel cimitero del Ghisallo) ma ha cambiato sede, trasformandosi in uno show room della moto, ma anche di questo ora si sono perse le tracce. C’e un sito internet: descrive la storia, nascita nel 1946, concessionario ca’ Gussi nel 1950, mi invita a rivolgermi ad una email con un asettico contatto.

Il negozio naif con il profumo di gomma e vernice, con le bici Legnano e la moglie ciabattante è rimasto un romantico ricordo di gioventù.

Originario di Bollate, è nato nel 1948. Unico figlio maschio degli otto del dottor Antonio, medico condotto per antonomasia dell’allora paese, ha seguito le orme paterne in ambito professionale. Specializzatosi a Parigi in chirurgia vascolare, è stato per anni direttore responsabile dell’unità operativa complessa  di questa specialità presso il polo universitario di  Pavia e, successivamente, presso quello di Lodi. Tra gli incarichi ricoperti, è stato titolare della cattedra di chirurgia vascolare all’università di Pavia. Attualmente è componente del nucleo di valutazione dell’azienda ospedaliera di Lodi. E’ autore di diverse pubblicazioni scientifiche in materia di patologia vascolare
ANGELO ARGENTERI

Medico chirurgo

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari ,la fotografia, la storia locale e lo  sport   sono sempre stati al centro dei suoi interessi. .Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni  Bollate 100 anni di immagini (1978) , Una storia su due ruote (1989) Il Santuario della Fametta (2010) La Fabbrica dimenticata (2010) Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014) . Ha curato anche diverse mostre fotografiche fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015) La Fabbrica dimenticata (2010) I 40 anni di Radio ABC (1977). E’ tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.

Giordano Minora