Dieci anni fa, primavera 2011, entravo per la prima volta in un carcere, era la II Casa di Reclusione di Milano-Bollate. E anche se accompagnato da volontari di lunga data, che avrei affiancato per un po’ di tempo, un pizzico di tensione c’era. Cosa avrei fatto, chi avrei incontrato, erano le domande che mi ronzavano nella mente.
La nostra Associazione, Sesta Opera San Fedele, ci prepara con un corso, che ogni volontario frequenta durante l’anno in cui inizia l’attività in carcere, però quando sei coinvolto in prima persona qualche timore ti assale. Ti chiedi se farai le cose giuste in un luogo così particolare e complesso, tra regole e umanità varia, come può essere un carcere. Una volta dentro, ti rendi conto che le cose non sono giuste o sbagliate, ma ci sono solo i bisogni, anche materiali, delle persone che si trovano lì, persone che sicuramente hanno sbagliato, magari anche pesantemente, ma che sono e restano persone. Papa Francesco, in una lettera indirizzata ai detenuti del carcere di Padova, scrisse che in carcere ci sono “persone detenute”, ma che bisogna far sì che il sostantivo prevalga sempre sull’aggettivo.
Molte volte mi viene chiesto “ma cosa fai in carcere?” E allora racconti cosa fai, distribuisci i vestiti, partecipi ai laboratori, collabori per il cineforum, parli con gli educatori, ma la cosa che più ti viene chiesta, e per la quale non occorre nessun know how, è quella di ascoltare la persona che incontri.
In carcere ci sono tante persone che “ascoltano”: l’educatore, lo psicologo, gli agenti, fino ad arrivare al direttore, ma tutte queste persone rappresentano l’istituzione che si rapporta con la persona nel suo tempo di detenzione. Poi c’è il volontario, il volontario ascolta “gratuitamente”, non ha alcun fine cosiddetto “trattamentale”, ascolta la persona proprio perché chi ha di fronte è un uomo e a quel punto tra il volontario e la persona reclusa si instaura quell’empatia che porta il recluso a raccontarti il suo momento difficile che sta vivendo, i suoi problemi, le sue paure e alla fine ti dice grazie. E quando tu gli rispondi perché, lui ti dice: “perché mi hai ascoltato”.
Nel carcere tutti quei problemi che per noi “liberi” sono piccole cose, diventano ostacoli enormi. Dalla semplice possibilità di avere un paio di occhiali perché fai fatica a leggere, piuttosto che avere notizie dai familiari e tante altre spicciole necessità. Proprio la soluzione a queste minime richieste aiuta ad alleviare la pesantezza della reclusione.
L’istituto di Bollate è una struttura che, pur con tutti i suoi limiti, offre opportunità a chi vuole ricostruirsi una vita e ripartire, però molte volte questa volontà non riesce a concretizzarsi perché chi rientra nel mondo esterno, non ha più una casa disponibile, non ha più il lavoro. Proprio in queste situazioni, che appaiono spesso insormontabili, l’intervento del volontario è un sostegno essenziale, diventa il tramite per la ricerca della casa, magari anche temporanea, per trovare una occupazione, anche momentanea, per ricominciare una vita normale, senza la quale rischi di tornare sulla strada degli errori passati e commettere di nuovo un qualche reato.
E poi ci sarebbero tante altre cose da dire sulle diverse situazioni da affrontare dietro le sbarre. Ma penso che la sintesi sia: dentro il carcere ho trovato un’umanità incredibile, inaspettata, sorprendente e che, in dieci anni di volontariato, da questa umanità sono più le cose ricevute di quelle che ho potuto dare.
Franco Motta -Volontario