STRARIPA IL PUDIGA

Bollate diventa Venezia

Giovanni e Gabriele Farina in via Magenta che,  invasa dalle acque, ha perso il suo consueto aspetto divenendo un paesaggio sorprendente. Foto © Giordano Minora

Il “piove, senti come piove, Madonna come piove, senti come viene giù”, che ha fatto da colonna sonora alle recenti giornate di acquazzoni infiniti, ha riportato alla memoria di tanti bollatesi quel sabato 30 ottobre del 1976, l’ultima delle grandi alluvioni che hanno interessato il Pudiga, “el fium” per antonomasia nel gergo cittadino. Via Vittorio Veneto, via Roma, piazza San Francesco, via Cavour, via Magenta, via Madonna Speranza, piazza Solferino, letteralmente sommerse dalle acque, tanto da far assumere a Bollate il volto di Venezia.

Le immagini scattate  in quel piovoso sabato di fine ottobre  restituiscono  l’eccezionalità dell’evento e il clima di fermento che agitava la città invasa dall’acqua e che traspare dalla disponibilità dei soggetti ritratti a farsi fotografare nel particolare e straordinario contesto.

Giordano Minora

Piazza San Francesco e la via Madonna Speranza – Foto © Giordano Minora

Piazza San Francesco verso la via Vittorio Veneto – Foto © Giordano Minora

Via Cavour – Foto © Giordano Minora

Piazza San Francesco – Foto © Giordano Minora

Piazza San Francesco – Foto © Giordano Minora

Abitazioni, negozi, cantine, cortili, strade, si trovavano a fare i conti con l’inondazione, e se per la maggior parte dei cittadini erano acque amare, perché significavano danni ingenti, con faticose e pesanti giornate di ripulitura, mobili, vestiario, stoviglie da buttare, impossibilità di spostamento (c’è stato chi addirittura ha dovuto rinviare il matrimonio), per altri, soprattutto ragazzi e bambini, quell’ acqua alta destava un senso di partecipazione gioiosa all’evento, regalava un coinvolgimento emozionale, una sensazione di quell’essere” tutti sulla stessa barca”, nel male e nel bene, come emerge dai ricordi narrati e dalle fotografie scattate. Esserci in quell’insolito contesto voleva dire “io c’ero” dentro quell’eccezionale avvenimento entrato nella memoria collettiva. Del resto, nel secolo scorso, alluvioni e straripamenti hanno spesso fatto parte del panorama cittadino, non solo perché coinvolgevano il Pudiga (è degli anni Trenta la tombinatura parziale, da piazza San Francesco a piazza Solferino) ma anche, seppur con minori conseguenze, la Garbogera, nel rione Madonna in Campagna, e i torrenti Guisa e Nirone, nel territorio di Ospiate. 

L’attraversamento difficoltoso di piazza Solferino – Foto © Giordano Minora

L’abbigliamento anfibio “fai da te” di Luigi Minora – Foto © Giordano Minora

Il sorriso e il buonumore di Luciana, fanno di lei la “Miss Alluvione” – Foto © Giordano Minora

Quando il secchio non basta, Giovanni Farina ricorre al più capiente mastello – Foto © Giordano Minora

Pausa sigaretta di Felice Saini nel suo negozio di orologeria di via Roma allagato – Foto © Giordano Minora

Riviviamo quella particolare atmosfera, tra cronaca e intrattenimento, attraverso  una vera e propria “public history“, con testimonianze, memorie, fotografie e filmati di chi c’era .

Il Matrimonio rinviato

La sera tra il 29 e il 30 ottobre, ero appena rientrato dall’addio al celibato con gli amici, l’indomani avrei dovuto convolare a nozze con Silvana Ascherio, residente nella vicina via Verdi. Abitavo al 78 di via Vittorio Veneto e dovetti subito mettermi all’opera con il signor Clerici, mio proprietario di casa, perché, intorno alla 1,30, aveva cominciato a straripare il Pudiga e l’acqua, in maniera impetuosa, stava arrivando alle finestre della mia abitazione. Lavoro di tamponamento improbo sia per la pioggia battente che per la difficoltà di movimento dovuta alla potenza delle acque limacciose e tortuose. Completamente sommersi, lavorammo tutta notte. Naturalmente l’indomani era pressoché impossibile spostarsi, figurarsi convolare a nozze. Considerata la situazione e visto che anche le comunicazioni telefoniche erano interrotte, il papà di Silvana, a una certa ora, si è precipitato in chiesa, dalla va Verdi era più agevole arrivarci, chiedendo di spostare la cerimonia al giorno dopo, ma era domenica e a quei tempi non era contemplata la possibilità di sposarsi in giorno di festa. Si avviò una trattativa con il prevosto di allora, monsignor Giuseppe Sala, che inizialmente propose, prendere o lasciare, il rito alle 8,30, orario non proprio consono per noi e, dopo un tira e molla, acconsentì a celebrare le nozze alla messa grande delle 11,30. Per sicurezza, onde evitare altre sorprese, il sabato pomeriggio, passando da Castellazzo, mi stabilii nella casa di Silvana. Comprensivo della causa di forza maggiore anche il ristorante Primavera di Arese: posticipò il banchetto al giorno successivo.

A dir poco, problematico l’arrivo dei miei parenti di Bergamo che, con un viaggio rocambolesco, raggiunsero la casa di Silvana alle 14 di domenica pomeriggio; erano infatti incappati prima nella inondazione del Seveso e qualche chilometro dopo in quella del Pudiga. Un episodio dal sapore tragicomico che ancora oggi, a distanza di anni, ricordiamo ogni volta che capita di incontrarci.

Luigi Vedovati

Via Roma – Foto Giordano Minora

Curt di moron – Foto © Giordano Minora

Giuseppe Mantegazza – detto “Gepp”-  e la moglie Bruna, sulla porta della loro casa ,messa al riparo con un asse di legno  e un mucchio di letame trasportato, con il carretto, dalla vicina stalla – Foto © Giordano Minora

NOI DE LA CURT DI PEE BIANC

Via Piave al civico1, la Curt di pee bianc. Lì sono nato e li ho abitato finché non mi sono sposato.
Quando il Pudiga tracimava, allagando mezzo Bollate, le nostre abitazioni, a differenza di quelle nelle vicinanze, rimanevano all’asciutto, anche se isolate dal resto del paese. Il portone d’ingresso era infatti più alto della strada, così l’alluvione riempiva solo il cortile, l’acqua entrava dal tombino dello scarico della “tromba”, situata nel mezzo a mo’ di fontana.
Per i grandi era un disastro, ma per noi bambini era un divertimento. La grossa pianta di magnolia in fondo al cortile faceva delle grandi foglie che sembravano delle perfette barchette. Ognuno di noi si ingegnava a metterci una vela, in modo che poi, soffiando dentro una canna di bambù, riuscivamo a farle andare fino in mezzo al laghetto che si era formato. I più scaltri rubavano alla mamma una pastiglia di canfora, la utilizzavano per fissarla dietro la barchetta e la canfora, sciogliendosi a contatto con l’acqua, consentiva di farla andare più lontano rispetto alle altre.
Poi, piano piano, l’acqua iniziava a defluire, lasciando il cortile pieno di fango, ed il nostro cuore pieno di tristezza…come quando si scioglie la neve.

Angelo Albani – patron della compagnia teatrale dialettale “I Amis del Giuedi”

Piazza Solferino verso via Piave. Sulla sinistra, l’arco di ingresso alla Curt di Pee Bianc – Foto © Giordano Minora

Per i grandi era un disastro, ma per noi bambini era un divertimento. La grossa pianta di magnolia in fondo al cortile faceva delle grandi foglie che sembravano delle perfette barchette.

 L’ebbrezza di pedalare a piedi nudi nell’acqua – Foto © Giordano Minora

LA CANTINA DELLA TAVERNETTA

Quand’ero piccolo mio padre gestiva “La Tavernetta”, osteria della Cooperativa la Benvenuta situata in via Madonna Speranza (negli stessi locali che ora ospitano la trattoria “Il Peschereccio”). Allora gli spazi erano divisi in più parti: la vera e propria osteria, la cucina, la sala da pranzo, il salone, la sede della sempiterna squadra di calcio “Benvenuta”, e la scala che portava in cantina.

Proprio quella cantina è il luogo della mia infanzia che ricordo con più impressione. Infatti, si trattava di una grotta buia e misteriosa, abitata, nelle mie fantasie da bambino, da “mostri pericolosi e sconosciuti” – e che dunque mi attirava irresistibilmente, facendomi immaginare nuove avventure tutte le volte che vi scendevo.

In cantina si trovavano due botti di legno della capacità di un metro cubo l’una, sostenute da un basamento di circa mezzo metro d’altezza: ogni primavera le si riempiva col vino nuovo e, durante l’anno, venivano svuotate con notevole solerzia ed efficacia dagli avventori dell’osteria. Nello spazio libero erano invece montati degli scaffali destinati a damigiane, bottiglie di vino pregiato, cassette di Campari, birre e bibite varie. In un angolo, poi, c’era un piccolo pozzo perdente, indispensabile per scaricare l’acqua quando si lavavano le botti vuote e, sul pavimento, era montato un camminamento costituito da assi appoggiate su piccoli pilastri in mattoni, che le sollevavano a mezzo metro da terra.

Il camminamento sopraelevato era indispensabile per l’utilizzo della cantina. Nei periodi delle piogge, infatti, il livello della falda acquifera si alzava e spesso l’acqua allagava il locale interrato attraverso la botola del pozzo perdente. Sarebbe stato davvero problematico raggiungere le botti e gli scaffali senza quelle assi sopraelevate.

Insomma, trovarsi l’acqua in cantina era un’eventualità tutt’altro che insolita per quei tempi. L’alluvione del 1959, però, fu tutta un’altra faccenda.

La via Madonna Speranza vista da Piazza San Francesco. Sulla sinistra, a metà della via , si trovava l’Osteria la Tavernetta – Fine anni Quaranta (Archivio Origgi/Mesini)

A quei tempi ero ormai tredicenne, dunque già “grande”. Eppure, non appena il livello dell’acqua in strada iniziò ad alzarsi, mio padre chiuse la porta a chiave e mi proibì categoricamente di scendere in cantina. Il che, ovviamente, infiammò la mia curiosità: non appena mi fu possibile, rubai la chiave e aprii la porta che dava sul luogo proibito. E rimasi di sasso: l’acqua era penetrata attraverso l’apertura da dove passavano i tubi per il rifornimento delle botti, ed era ormai arrivata fino al primo gradino della scala. Era impossibile scendere nell’interrato. Solo dopo qualche giorno il livello cominciò a calare e a far emergere gli altri gradini, ma ci volle l’intervento di una pompa idrovora per prosciugare del tutto la cantina e salvare i suoi tesori. Quando l’altezza dell’acqua scese a circa un metro, riuscii a vedere il pavimento, e allora vidi le conseguenze dell’alluvione: le bottiglie vuote e le assi da ponte del camminamento galleggiavano, mentre una delle botti (vuota) era stata sollevata dal basamento e galleggiava come una barca alla deriva.

Una volta tolta l’acqua, si dovette lavorare a lungo per rimettere la cantina in condizioni accettabili. Per prima cosa fu rimessa in sede la botte; fu poi necessario eliminare il fango che s’era depositato, lavare il pavimento, sistemare le bottiglie e le damigiane. Contribuì alla buona riuscita dell’operazione un nutrito drappello di avventori dell’osteria che, nel giro di una settimana, riuscirono a mettere tutto a posto. E che, per scordare in fretta tutta quell’acqua, celebrarono l’impresa con una gran bevuta di vino.

AIbino Luzzini

Fotogrammi di un inedito filmato che documenta un’alluvione di fine anni Quaranta in via Magenta (Archivio Giordano Minora)

Fotogrammi di un filmato super 8 a colori, girato dal dottor Bruno Mannucci  in occasione della piena del novembre 1959. I fotogrammi ritraggono 1-2  via Roma 3 le operazioni per ripararsi dall’acqua con gesso e assi di legno 4 via Sartirana all’incrocio con via Concordia 5 via Vittorio Veneto

Gruppo di ragazzi in posa in via Sartirana – fine anni Quaranta (Archivio Origgi/Mesini)

Un numeroso e divertito gruppo in posa in via Roma – Fine anni Quaranta (Archivio Origgi/Mesini)

Fotocartolina con la via Roma inondata dalla piena del 30 maggio 1917 (Archivio Giordano Minora)

In questa rara fotocartolina,  relativa sempre alla piena del 30 maggio 1917, è raffigurata la via Senago, successivamente denominata via Vittorio Veneto in ricordo della battaglia che si sarebbe svolta nel 1918. Si possono notare :sulla destra, l’edificio che ospitava l’Osteria del 38, e sulla sinistra, i due edifici della Cassinetta. (Archivio Giordano Minora)

Un gruppo di ragazze festose , immortalate  nello scenario inconsueto di una via Roma invasa dall’acqua – Fine Anni Quaranta (Archivio Origgi/Mesini)

Quattro giovanissimi sorridenti  ritratti in via Cavour durante una piena dei primi anni Cinquanta (Archivio Giordano Minora)

Giovanni e Lina Tagliabue,  messa al riparo la loro casa,  possono sorridere  godendosi l’inconsueto scenario – Foto © Giordano Minora

QUELLA  SANTA BARBARA INDIMENTICABILE

“La nostra vita è il fuoco, la nostra fede è Dio, per santa Barbara Martire”

Conclusione della preghiera dei Vigili del Fuoco

Il ricordo di mia mamma, risale al 4 dicembre 1959.

A quel tempo, Giuseppina Ballabio, era una ragazza di soli 23 anni (e già madre della sottoscritta) che lavorava alla Leon Beaux di Baranzate; fabbrica insediatasi nell’ex opificio Erba che, dalla produzione di munizioni per la carabina Flobert (adatta anche alle signore tiratrici), si concentrò su cartucce per carabine Winchester e su quelle di calibro adatte per l’austriaca Steyr. 

Giuseppina Ballabio con la sua immancabile bicicletta e, sulla destra, la costa sponda del Pudiga

Lavorare con la polvere da sparo era rischioso e la giornata particolarmente lunga (dalle 10 alle 12 ore) ma, il 4 dicembre, era una data speciale; era il giorno in cui si festeggia santa Barbara, protettrice di marinai, artiglieri, genieri, minatori e di tutte le professioni collegate con il fuoco ed, eventualmente, alla morte improvvisa causata dallo stesso (morì in questo modo  Dioscoro, il padre della santa, colpito da un fulmine).

Il 4 dicembre quindi, era una giornata di festa, che vedeva tutti i lavoratori presenti alla funzione religiosa in onore della santa, celebrata a Baranzate, nella allora nuovissima chiesa di Vetro (la chiesa di Nostra Signora della Misericordia, consacrata il 7 novembre 1958).

Dopo la messa, l’azienda offriva il pranzo – in quella occasione ravioli in brodo, pancetta di  vitello ripieno, dolce-  e poi si tornava tutti a casa.

 Proprio al rientro di quell’itinerario, che faceva quotidianamente in bicicletta, da Baranzate a Bollate Nord, dove abitavamo, fu fermata all’altezza della testa del fontanile, detto “Testa di Vialba” (incrocio tra via Piave, via don Uboldi e via Milano), perché il paese era completamente allagato. L’unico modo quindi di raggiungere la casa di via Vittorio Veneto fu quello di tornare indietro, passare da Novate e da lì raggiungere Bollate.

Un fuori programma accolto con un senso di un ulteriore divertimento in un giorno di festa, tanto che quel tragitto in bici, circumnavigando paesi limitrofi, con il Pudiga straripato, in un freddo giorno di dicembre, Giuseppina lo ricorda ancora oggi con nostalgia.

Sarà che una volta si era, forse, più abituati ad affrontare le difficoltà?

Mariangela  Feliciello

LE MIE PIENE

Di “piene” ne ho vissute sicuramente quattro, ma due  in particolare mi sono rimaste nella memoria, la prima e l’ultima,  quella che avvenne nel 1976. 

Durante la  mia prima “piena”, facevo le scuole elementari, forse la seconda, eravamo nella scuola di via Garibaldi – ora sede della Polizia Locale-,  era novembre ed era piovuto tanto, i miei nonni dicevano che “l’è  el temp di mort” . Quel giorno era nuvolo ma non pioveva, in classe verso metà mattina si presenta la maestra D’Alessio, mi chiama dicendomi che era venuto mio papà a prendermi perché era uscito il torrente Pudiga. Era una grande novità, mio papà mai era venuto a prendermi a scuola, era in bicicletta, mi caricò sulla canna e partimmo per via Vittorio Veneto dove abitavo. Arrivati in via Turati, all’altezza dell’incrocio con via Mazzini, già si vedeva l’acqua del “fiume” che era fuori uscita e copriva tutta la via Veneto, come un grande unico potente torrente. Ci avventurammo in questo torrente sulla strada, l’acqua arriva fino a metà ruota della bicicletta e, salutando tutte le persone intente a prototeggere le loro abitazioni con sacchi di sabbia e con assi davanti ai cancelli, arrivammo a casa  Poi anche mio papà cercò di proteggere la nostra casa dalla furia dell’acqua sporca che fuoriusciva dal Pudiga. In particolare mi ricordo che, dove attualmente c’è la Coop, vi era un distributore di legname e carbone, il Valadè,  rimasi impressionato dalla quantità di pezzi di legno, quelli da bruciare nella stufa, portati via dalla furia delle acque.

La seconda, quella del 1976,  è caratterizzata da due ricordi, la triste amarezza dei miei genitori e la cordiale condivisione dei miei amici.

Erano le 4,30 circa del mattino, ed il mio cane Roll era in cantina nella sua cuccia e continuava senza sosta a guaire e abbaiare: lo trovai che aveva l’acqua fino al collo e nuotava cercando di salire le scale ormai coperte di acqua lercia e scivolosa, lo portai in salvo in cucina.

Svegliai i miei genitori, subito corremmo nel negozietto di merceria di mia mamma, l’acqua aveva raggiunto e inondato i primi scaffali e nel negozio galeggiavano camicie, pigiami, fazzoletti, ecc.

Vidi sul volto dei miei genitori l’amara tristezza per i tanti sacrifici vanificati dalla ennesima alluvione.

Mettemmo al riparo quanto più potevamo sia in casa sia in negozio, in cantina non potevamo scendere perché l’acqua aveva ormai raggiunto quasi il plafone.

Intorno a mezzogiorno il torrente cominciò a ritirarsi e in poche ore restò solo da pulire e sistemare quanto la piena aveva insozzato e distrutto; l’acqua era sporca e oleosa, perché  già aveva inondato altre case e officine inquinandosi di olii, gasolio, ecc.

Nel pomeriggio un pallido sole ci permise di continuare il lavoro, arrivarono a casa mia per un grande aiuto fattivo e solidale i miei amici, i fratelli Nizzola, Cesare Ghezzi e Alfredo Gola. Con la loro generosità e amicizia in quel pomeriggio sistemammo quasi tutto.

Passata l’inondazione mia mamma organizzò poi una tavolata con gnocchi e salame. 

In quel periodo ero presidente del Consiglio di Quartiere di Bollate Centro.

Antonio Annoni , pure lui colpito duramente dalla inondazione, si fece promotore di una raccolta di firme di residenti nel quartiere da consegnare alle amministrazioni Comunale e Provinciale per chiedere la tombinatura del torrente Pudiga, i sottoscrittori erano più di 5.000.

A seguito di tale petizione, il Consiglio di Quartiere organizzò un referendum di quartiere per chiedere il parere dei cittadini residenti circa la tombinatura del Pudiga. Le schede venivano consegnate e ritirate nelle tabaccherie, giornalai, macellai e rivendite pane.

La risposta dei residenti di Bollate centro fu ampia e pressoché unanime, il Pudiga –ed il Garbogera- dovevano essere tombinati

 Cosa che più tardi avvenne

Maurizio Panza

IL RIMEDIO

Negli anni Ottanta si è completata la copertura del Pudiga ,da piazza San Francesco verso nord e poi quella della Garbogera, lungo via Porra, via Madonna in Campagna e via Petrarca. Nel frattempo, in diversi lotti, è stata realizzata l’opera che può essere considerata il nostro Mose: il canale scolmatore che, convogliando le acque in piena dei torrenti in questione nel tracciato idraulico che transita da Traversagna, Castellazzo e Ospiate, permette di evitare tracimazioni.

A sinistra, apparecchi di monitoraggio della piene delle acque, recentemente installati sullo scolmatore in località Traversagna. A destra, mappa dello scolmatore nel tratto Traversagna – Castellazzo

La commedia Te se regordet ? è stata messa in scena dalla compagnia teatrale “I Amis del Giuedi” e ha debuttato il 29 gennaio del 2010 al teatro Splendor. Un atto è dedicato alle alluvioni

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari ,la fotografia, la storia locale e lo  sport   sono sempre stati al centro dei suoi interessi. .Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni  Bollate 100 anni di immagini (1978) , Una storia su due ruote (1989) Il Santuario della Fametta (2010) La Fabbrica dimenticata (2010) Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014) . Ha curato anche diverse mostre fotografiche fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015) La Fabbrica dimenticata (2010) I 40 anni di Radio ABC (1977). E’ tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.

Giordano Minora

Bollatese e napoletana nelle radici, appassionata di pittura e di complicate trame a maglia, ha svolto per trent’anni incarichi di marketing management in imprese internazionali della meccanica e dell’ambiente. Oggi è tornata alle sue origini bollatesi (e napoletane, ci tiene) riscoprendo luoghi incantati del passato, ricordi e magie. Da amare e, naturalmente, da scrivere.

Mariangela Feliciello