RICORDI DI SCUOLA

I nostri primi maestri

Ottobre 1938 lezione di geografia della maestra Giuseppina Vimercati alla  presenza del Duca di Bergamo in visita alla scuola di Bollate (Archivio Giordano Minora)

Bollate ebbe fin verso il 1860 un solo maestro: raccoglieva tutti gli alunni in un’unica aula facendo contemporaneamente lezioni per la prima, la seconda e la terza elementare. La scuola era nell’edificio di via IV Novembre-angolo via Piave, dove era situato anche il municipio. Tale sede rimase fino al 1911, anno di fabbricazione delle scuole elementari di via Garibaldi.

L’ingresso dell’edificio di via Piave, dove sino al 1912 avevano sede il Municipio e le Scuole  (foto Archivio Origgi/Mesini) –  Il porticato di ingresso dell’edificio via Piave che ospitava la scuola (foto © Ettore Minora)

Primo maestro di cui si ha ufficialmente notizia fu un sacerdote, don Giuseppe Pusterla. Come mai un prete?

Nel 1818, venne emanato un decreto del governo austriaco che stabiliva l’apertura delle scuole pubbliche in tutto il territorio  lombardo-veneto e per quanto riguarda l’insegnamento consigliava  venisse affidato  preferibilmente a religiosi. Da qui la scelta del Pusterla che rimase in carica fino al 1838, quando  lasciò a favore di  un laico: tal Santino Verzaghi ,che aveva fatto domanda di  occupare il posto vacante, avendo egli abbandonato  la cattedra occupata  a Cornate e che era stata affidata al coadiutore locale”per arrotondare le sue rendite”, come recita un documento dell’epoca. La nomina del Verzaghi permette di capire come avvenivano le sedute comunali . I deputati e gli estimati erano convocati al suono di una campanella per esprimere il loro voto sull’argomento o la spesa in discussione. Alla seduta di nomina del Verzaghi, intervennero tre deputati: Paolo Vanotti, Antonio Perego e Luigi Uboldi e cinque estimati o possessori: quattro Doniselli, Giobatta, Dionigi, Pietro e Battista  e Francesco Ronchi. Dapprima furono verificati i documenti del candidato: una domanda in carta da bollo da 60 centesimi, l’attestazione di  frequenza alle scuole di metodo, le magistrali di allora, oltre alla dichiarazione che il candidato fosse” immune da imputazioni politiche”. Quest’ultima condizione era imprescindibile, altrimenti l’incarico era  invalidato dall’Imperiale Regio Commissario Distrettuale (una sorta di sindaco nominato dagli austriaci). Una volta esaminati i documenti, il segretario svolgeva una relazione sulla  opportunità della nomina e sulle modalità dello stanziamento dei fondi relativi allo stipendio.  Dopodiché si passava alla messa ai voti: bossolo rosso equivalente a SI, bossolo bianco a NO. Il Verzaghi venne nominato con 6 voti favorevoli e 2 contrari.  Il suo stipendio fu stabilito in lire 344,83 annue.  Nel 1842 il Verzaghi, a sorpresa, lascia l’incarico e viene sostituito da Gilberto Tagliabue . Questi di li a poco cede il testimone a Carlo Croce che resterà in cattedra per ben 45 anni filati. Il perché di questa scelta è probabilmente dovuto al fatto che il Croce era l’unico del luogo e quindi era a conoscenza della realtà dell’infanzia locale. D’altronde il suo incarico era piuttosto improbo: doveva radunare in un unico salone bel 118 ragazzi di ambo i sessi , “disciplinandone la condotta e differenziando l’insegnamento” Si narra che sapesse imporre una disciplina perfetta grazie alla sua abilità nell’utilizzare un’inesorabile bacchetta , tanto da essere soprannominato “el maester bacheta”.

Il maestro Carlo Croce (per gentile concessione di Paola e Lucia Croce)

Al di là di questo particolare, i documenti che lo riguardano sono ricchi di elogi per la “sua infaticabile attività di educatore tra i  bambini; divulgatore di ideali legati a Dio, Patria e Famiglia tra gli adolescenti ed i giovani; ed estendendo il suo raggio d’azione anche agli adulti analfabeti”. A conferma di ciò, una medaglia d’argento conferitagli nel 1877 dal ministero, accompagnata da premi per una rendita di lire 50 e in denaro per lire 130, annotati su un libretto a lui intestato dalla Cassa  di Risparmio e datato1882. Oltre che in qualità di insegnante, il Croce operò anche nella pubblica amministrazione, assessore nella giunta guidata dal sindaco  Vanotti, avendo tra gli altri come colleghi Edoardo Tizzoni e Giuseppe Colombo. Fu anche membro della Congregazione della Carità , nonché presidente della banda cittadina. Autentico esempio di impegno professionale e civile. Non c’è dunque da stupirsi se alla morte, avvenuta nell’aprile del 1899, furono decretati funerali solenni con la commemorazione ufficiale da parte del sindaco Vanotti che sentenziò: “ con la sua scomparsa  viene a mancare un uomo integro e benemerito sotto tutti i rapporti che tanto bene, durante la sua vita, arrecò alla di lui famiglia e al Comune”.

Intanto, nel 1860, era salita in cattedra anche la prima maestra, Regina Beretta con uno stipendio annuo di lire 333 , divenuto in seguito 444. Le differenze di genere: il Croce, uomo, ne percepiva 666.

Con la nomina della Beretta le classi divennero due: una maschile, che comprendeva prima, seconda e terza insieme, e una femminile, pure in questo caso tre classi in una. La popolazione scolastica però aumentava e nel 1867 venne  nominata una terza maestra,  Ermenegilda Borroni, figlia di un consigliere comunale, che avrà l’onore di insegnare in una classe mista.

 Considerato l’esponenziale aumento del numero di alunni, per ben due volte, nel 1869 e nel 1880 , il consiglio comunale cittadino è chiamato a dibattere la richiesta del Regio Provveditore agli studi di Milano, per istituire una nuova classe. In entrambe le circostanze il consiglio comunale si dichiara contrario per motivi prettamente economici, sostenendo che c’erano già  tre maestri: Carlo Croce, con tre classi e 118 alunni, Regina Beretta  con due classi femminili e 85 alunne, Costanza Croce, sorella di Carlo, con due classi miste e 114 alunni, e  che dunque una nuova classe avrebbe gravato “ per ulteriori migliaia di lire annue un bilancio  già oberato di spese.”

Inoltre erano funzionanti i corsi serali e festivi, antesignani delle scuole professionali e di quelle di avviamento. Le lezioni, sia serali che festive,erano tenute dagli stessi maestri del corso diurno.

Nel 1893 al pensionamento di Croce subentra Antonietta Fraschini. Nel 1902 debutta la quarta classe ed entra in scena la maestra Giuseppina Lodigiani. L’edificio di via Piave si dimostra ormai insufficiente per far fronte alle nuove esigenze di spazi e così il sindaco Vanotti prese in considerazione il progetto di trasferire scuola e municipio in sede più idonea . Nel 1910 venne approvato il progetto definitivo e cominciarono i lavori per la edificazione della scuola elementare di via Garibaldi, con annesso il  palazzo comunale.

I costi per la realizzazione dell’opera furono così rendicontati :

• acquisto del terreno di mq 3972,0 -di proprietà di Edoardo Tizzoni- Lire 25.818,45, pari a lire, 6,50 il mq.;

• impresa costruttrice fratelli Rizzi: importo lire 88400,77;

• arredamento: lire. 3597,05

Ai lavori intervennero in  qualità di artigian:

Felice Tenconi, elettricista, lire 25,

Angelo Radice, lire 35;

Fratelli Oggioni, imbiancatura, lire. 87

Come bidello fu nominato Pietro Torezzo

Nel 1911, in virtù del decreto legge del ministro Credaro, tutte le scuole  provinciali passarono sotto l’egida dello stato.

Dalle memorie del dr. Carlo Croce – per gentile concessione delle figlie Paola e Lucia

Scolaresca ripresa nel cortile interno dell’edificio – 1910 (Archivio Giordano Minora)

La scuola elementare di via Garibaldi

La casa dove abitavo, confinava con il muretto delle scuole elementari, la cui entrata principale era nella strada sulla quale si affacciava il cancello del nostro giardino: la via Garibaldi. L’ingresso posteriore dava invece su via Ambrogio da Bollate, ed era un cancello su un cortile con ghiaietta.

 Quasi tutti entravamo da questa parte, si arrivava ai gradini con due scivoli laterali in cemento. Ad attenderci c’era sempre il bidello, il signor Montecchi. Portava un camice nero e un basco bleu che non toglieva mai perché era pelato con una corona di capelli rossicci. Noi avevamo soggezione: controllava che fossimo in orario e in ordine quando si entrava il mattino. I maschi con il grembiule nero allacciato dietro con martingala e il nastro azzurro che teneva chiuso il colletto bianco, le femmine con fiocco rosa e grembiule bianco. I più chic avevano il colletto inamidato. Le classi erano rigorosamente divise tra maschi e femmine.

1912 – La scuola di via Garibaldi (sulla destra) sta per essere ultimata. I ragazzi bollatesi in posa presto animeranno le sue  nuova aule

Prospettiva della via Garibaldi nei primi anni 50 – Sulla destra l’angolo della scuola e la Villa del dr. Argenteri (foto Archivio Origgi/Mesini)

 Il Montecchi restava ritto sulla porta e mentre la campanella continuava a suonare, lui batteva le mani ai ritardatari; io ero tra questi perché essendo attaccato alla scuola arrivavo sempre tra i primi per giocare in cortile, di solito a prendersi ( ta ga l’et ). Il gioco durava fino all’ultimo e quando mi infilavo  in classe  ero già in disordine; ero il cruccio di mia mamma.

L’uscita era un rito: scendevamo i gradini in doppia fila, ognuno con il suo compagno di banco, io con il Franco Boniardi, ci si fermava e si rompevano le righe solo al battere delle mani della maestra Faccioli.  Seguiva regolarmente un gran chiasso e prima di rientrare a casa ci si fermava a capannelli, il più delle volte per gli scambi che erano di figurine, biglie, fumetti.

 All’uscita c’era sempre ad attenderci la signora Pampanini: in inverno, con fazzoletto nero in testa e grembiule nero ,stazionava con il carrettino con le caldarroste, in estate, con fazzoletto e grembiule bianchi, con il carrettino dei gelati. Ci conosceva tutti per nome e con me era molto gentile, a volte mi regalava un cono (lo chiamavamo parigina, chissà cosa c’entrava Parigi?) da lire cinque, di panna e cioccolato. Il top era da cinquanta lire. Per le caldarroste usava un cilindro di metallo come misura e le porgeva in un cono di carta di giornale. Era un’istituzione e quando andai alle medie a Milano, perché nel paese non c’erano, mi mancò. Era dolce ma aveva sempre una patina di tristezza che noi monelli avvertivamo; un giorno il nonno Felice mi disse che era vedova e che suo figlio era morto in guerra in Africa ad El Alamein nel suo carro armato. 

Io sapevo, a mio modo e per la mia età, qualcosa sulla guerra; era il nonno Felice che mi raccontava. Lui era stato veterinario nel reparto Savoia cavalleria. Naturalmente ai miei compagni raccontai subito del figlio morto in Africa e per qualche giorno fu il tema dominante dei nostri discorsi; non potevamo ancora capire il perché, ma da quel momento la signora Pampanini ci sembrò più vicina ed avvertivamo per lei un senso di maggior rispetto.

La signora Pampanini con il suo carretto delle caldarroste  – Foto © Roberto Pizzo

Le aule erano tutte simili. Il banco da due, tutto in legno, aveva il pianale scrittoio verniciato di nero con un foro nell’angolo in alto a destra con il calamaio di vetro spesso, sotto il pianale andava la cartella. Sulla superficie interna del pianale erano attaccati residui induriti di gomma da masticare ( la cicca ) anche se chiaramente non era permesso masticarla in classe: non voglio vedere ruminanti, ammoniva la maestra.

 Il sedile era una panchetta unica per tutti e due e ,insieme allo scrittoio, poggiava su un unico basamento di legno.

 Più tardi arriveranno i banchi in tubi di metallo verde oliva con pianale e sedile fisso in legno, per diventare poi ribaltabile.

 La cattedra era su una pedana. Al muro il crocefisso e un altoparlante; la carta geografica dell’Italia era di solito appesa sul muro in fondo; di norma erano due, una, quella regionale, allegra a colori diversi, l’altra fisica, triste tutta marroncina e verde.

La lavagna era girevole con due facce di cui una quadrettata; il cancellino era un rotolo di feltro con i gessetti su un ripiano al di sotto. I gessetti erano  bianchi, molto più tardi compariranno quelli colorati. Sovente il gessetto nuovo con la sua patina esterna provocava con l’attrito sulla lavagna un terribile stridio cui seguiva la frase classica: spezza il gesso. Andare alla lavagna voleva inoltre dire riempirsi della polverina del gesso di cui erano pieni i bordi.

 In uno dei primi banchi c’era il capoclasse che di solito era anche il primo della classe;

il suo ruolo era abbastanza impopolare, quando la maestra si assentava divideva la lavagna in due settori con una riga bianca: i buoni e i cattivi. Scrivere qualcuno tra i cattivi comportava regolarmente minacce di vendetta all’uscita.

 Era il capoclasse che dava l’attenti e il riposo. Con il primo dovevamo assumere una posizione curiosa che non ho mai capito: al comando dovevamo distendere le braccia in avanti e con la punta delle dita e palme rivolte in basso toccare il bordo anteriore del banco, il riposo consisteva invece nell’incrociare le braccia posteriormente alla schiena. L’attenti era riservato al direttore, all’ispettore o altri personaggi  di rilievo che entravano in classe.

L’interno di una classe nei primi anni cinquanta –  (Archivio Giordano Minora)

I libri erano solo due e non una biblioteca come ora. Ci limitavamo al libro di lettura e al sussidiario. Venivano sempre ricoperti con carta da pacco marroncina o blu violaceo, i raffinati usavano la carta di Varese con il giglio fiorentino o il leone rampante. Più tardi arriveranno le fodere in plastica con taschina con cartoncino per il nome. I più usavano scrivere il nome su etichette rettangolari bordate di blu da incollare sulla copertina dopo essere state leccate. L’Origgi, il cartolaio vicinissimo alla scuola, le vendeva di varie dimensioni e tipi; le più eleganti erano bordate da una filigrana bleu.

  I più ordinati, per impedire la formazione di orecchie agli angoli, fermavano l’angolo di pagina con una graffetta metallica. Quando si verificava uno strappo alla pagina non esisteva lo scotch ma si ricorreva alla carta gommata: erano dei rotolini di carta virtualmente trasparente, in pratica opaca, che aderivano bagnando la faccia gommata. Applicarli non era semplice perché dopo essere stati bagnati si attorcigliavano lasciando adesivo da tutte le parti; per i pochi centimetri necessari si buttavano via i metri.

Il negozio di Cartoleria ed edicola Origgi  nei  primissimi anni 50. Seduti sul marciapiede alcuni scolari intenti allo scambio di figurine e alla lettura di “giornaletti” (foto Archivio Origgi/Mesini)

Qualcuno più intraprendente ricorreva allora ai bordi gommati dei fogli dei francobolli o a strisce di carta applicate con la colla liquida Gnocchi o la solida Coccoina.

 Le due colle erano la pozione magica alla base di ogni nostro lavoro.

 L’astuccio era la carta d’identità dello scolaro; di taglia variabile aveva un armamentario ed una fisionomia comune.

 Di pelle cartonata si apriva a libro con una chiusura con fibbia a scatto, quelli con cerniera saranno più tardivi: all’interno una fettuccia di elastico, dello stesso colore dell’astuccio, delimitava gli spazi  dove riposavano da un lato i pastelli e dall’altro la cannuccia della penna, un cilindretto di metallo o una scatoletta plastificata trasparente per i pennini, il temperamatite  rigorosamente in metallo, la matita, la gomma e il nettapenne.

 La cannuccia della penna era di bachelite o di legno con un’estremità appuntita e l’altra per l’alloggiamento del pennino. Il cambio del pennino era un rito:il pennino nuovo, una volta innestato nella cannuccia, doveva essere umidificato succhiandolo, non so ancora il perché. I pennini avevano foggie varie e per me era una gioia andare ad acquistarli dal cartolaio – giornalaio di fronte alla scuola: il cavalier Origgi era un vero mito.

 Il cavaliere, con i capelli bianchi scomposti e il papillon, più simile a un direttore d’orchestra, apriva il coperchio di vetro di un espositore in legno con all’interno numerosi scomparti con vari tipi di pennini. Una volta scelti li metteva in una bustina di carta con stampata la pubblicità dei pastelli Fila.

Il Cav. Luigi Origgi nel suo fornitissimo negozio – Fine anni quaranta (foto Archivio Origgi/Mesini)

Gli strumenti di lavoro dello scolaro – Foto © Giordano Minora

 La scelta del pennino ubbidiva a criteri personali e variabili. Il più usato era quello bombato a punta di lancia, mentre quello piatto a punta leggermente quadra scriveva con un tratto largo. Quelli dorati a guglia gotica o a tour Eiffel erano molto scenografici ma di impiego limitato soprattutto perché più delicati degli altri. L’uso del pennino non era così semplice necessitando di manualità dopo un periodo piuttosto lungo, in prima e seconda, limitato alla sola matita.

 Oltre la gomma bicolore, azzurra per la penna e rossa per la matita, c’era, ma per la sola matita, la gomma pane; una sorta di pasta elastica bianca molto duttile, era la preferita perché diventava un passatempo. 

 Il pennino a lungo andare si incrostava di residui di inchiostro anche perché quello in dotazione alla scuola sembrava carbone dissolto nell’acqua; il Montecchi passava al lunedi mattina con un caraffone di metallo e rabboccava i calamai.

  Solo alle medie fecero comparsa le stilografiche.

 Il temperino era di metallo, i più fortunati avevano quello con due fori; uno per le matite di calibro standard e uno per le matite più grosse come quelle rosso – blu della maestra. Il mio sogno restava il temperino con manovella fissato al tavolo; permetteva di confezionare una punta perfetta e affusolata. Ne restavo affascinato quando il papà mi mandava in posta  dove lo vedevo usare, da dietro il vetro, dalla direttrice signora Vimercati. I quaderni erano tutti con la copertina nera lucida con la costa color vermiglio con le righe dei margini violacee; i quadretti grandi per la prima e seconda, per la terza e  classi seguenti il quadretto rimpiccioliva. Nell’ultima pagina del quaderno c’era sempre la tavola pitagorica. Sovente sulla prima pagina del quaderno incollavamo dei francobolli che ci venivano dati nella settimana della campagna antitubercolare; a me incuriosivano per la croce di Lorena stampata, anche se non conoscevo il suo significato in merito ( lo ignoro anche adesso ).

 Nell’ultimo anno delle elementari o forse nelle medie comparve il compasso; ricordo di averlo usato molto raramente ma era uno strumento che, con il suo involucro, mi affascinava. I compassi più semplici erano in metallo, i più chic in ottone. Adagiati in un loro alloggiamento a stampo rivestito di velluto violaceo in una scatoletta di legno ricoperta di carta opaca nera ad imitazione pelle.    

 Alle elementari durante la ricreazione il gioco preferito e più redditizio era quello delle figurine ” a muro “; quelle con i calciatori o con i ciclisti.Si appoggiava ad una certa altezza al muro la figurina che svolazzava a terra: se quella dell’avversario scendendo la copriva veniva vinta.  Se c’era tempo giocavamo a bandiera o a rella. Il più bravo a rella era Sergio Guastalla; con un bastone si doveva far saltare da terra un pezzo di legno fusiforme e colpirlo in aria lanciandolo il più lontano possibile.  Eravamo gli antesignani del baseball.

 Alle superiori, la ricreazione diventò più personale e meno di gruppo; non era più il momento spensierato e desiderato delle medie ed elementari.

  Era arrivato infatti il momento delle prime: i primi ragionamenti contorti, le prime confidenze e confessioni, la prima cotta, la prima sigaretta, la prima vera bugia ai genitori, la prima bigiata, la prima moto, il primo giornalino con foto di seni al vento ( solo quelli ), le prime guasconate, le prime illusioni e le prime delusioni, le prime ansie e le prime emozioni, le prime gelosie, le prime fantasie, le prime vere amicizie e le prime vere inimicizie.

 Non lo avevo ancora capito, ma in quei giorni dalla mia vita era uscita per sempre la signora Pampanini che, malgrado il figlio perso ad El Alamein, continuò sempre a sorridermi.

Angelo Argenteri

LA MAESTRA CHE AMAVA LA CULTURA

Giuseppina “Pina” Vimercati  è stata  la maestra per antonomasia alla scuole elementari di via Garibaldi.  Più che una presenza, una identità ,un tutt’uno con questa istituzione sia per il ruolo primario  di educatrice, ha insegnato a generazioni di alunne  dal 1927 al 1972, lasciando una traccia formativa indelebile;  sia per il suo impegno in campo sociale ,e  non solo  nell’ambito dell’allora  fiorente patronato scolastico, ma mettendo a disposizione le sue capacità professionali nelle svariate iniziative civili e parrocchiali: dalla collaborazione con la biblioteca civica in qualità di redattrice sulle colonne de l’Informatore Bollatese,  al ruolo di consigliere dell’asilo Maria, alla  partecipazione come componente della giuria al carnevale dei bambini dell’oratorio o al premio Bollate di pittura, fino a far parte  attiva dello staff organizzativo della celeberrima Cento Kilometri di marcia. Grande amica e confidente della  poetessa Ada Negri ,quando la scrittrice lodigiana in tempo di guerra soggiornò nel cortile di via Magenta a Bollate. A  sottolineare il loro rapporto di confidenza ,la Negri dedicò  all’amica Pina la poesia l’Orto.

Giuseppina Vimercati in Origgi (1907-2003)  figura di riferimento di numerose generazionI di bollatesi in un’immagine degli anni Trenta. (Archivio Giordano Minora)

La maestra Vimercati è sempre stata attiva nella vita sociale cittadina. Qui, come  componente del Comitato Organizzativo, è con il Sindaco Enrico Colombo e Vincenzo Torriani in occasione dello svolgimento della gara di Marcia Cento chilomentri svoltasi a Bollate il 1 novembre 1960 – (Archivio Giordano Minora)

LA MAESTRA VIMERCATI NEL RICORDO DELLE SUE ALLIEVE

“ Pensa al passato soltanto quando il ricordarlo ti può dare piacere”

Jane Austen

La maestra 

La maestra Vimercati è stata per me la “Maestra”. E, nel ricordo , anche la struttura  fisica lo confermava.  Forse per il fatto che io fossi bambina  conservo di Lei l’immagine di una donna alta, magra, dall’aspetto sereno ma severo( come doveva essere una maestra di allora)

Nel complesso posso affermare che questa mia insegnante ha saputo valorizzare  in una allieva bambina ciò che, in un  tempo così prezioso per ciascuno di noi come quello dell’infanzia, solo  la sensibilità di una brava maestra può cogliere.

Lo faccio con due episodi  entrambi legati all’uso del colore

Il primo: in un disegno avevo utilizzato solo il nero e il viola. La maestra  mi chiese il perché di quella scelta.  Le risposi  che la mamma voleva che usassi tutti i colori, in modo da non essere costretta a comperarne di nuovi.

Il secondo:  ero molto preoccupata del compito che dovevo svolgere; mi ritenevo poco capace di disegnare una foresta con animali, anche se l’utilizzo dei pastelli a cera  poteva facilitarlo.

Quella volta superai me stessa , le mie chiusure e le mie indecisioni. Utilizzai moltissimo colore, disegnai linee sovrapponibili, intrecciai forme varie. Senza preoccuparmi di realizzare qualcosa di attinente al “vero” ,  tracciai un’idea di bosco e di animali, creando un disegno  che poteva definirsi astratto.

Ebbene, la “Mia Maestra” appese alla parete della classe proprio il mio disegno. Lo affiancò alle opere migliori degli alunni delle varie classi prodotte in quell’anno scolastico e per me fu una grande gioia.

Daniela Franzoni

La mia maestra era una bravissima coltivatrice

Immaginate  una bambina di sette anni che per gli esami di II elementare recita la poesia “Breus” di Giovanni Pascoli, lunghissima narrazione su un cavaliere della Cornovaglia .Oppure ad una recita di fine anno scolastico canta ,vestita da maschio ,” Vent’anni”  di Massimo Ranieri.Ecco la mia Maestra negli anni ’60, pur essendo una severa e già anziana insegnante, era modernissima, semplicemente assecondava il mio voler essere un maschiaccio.

La Maestra Giuseppina Vimercati mi ha insegnato ad amare l’arte facendomi dipingere su ceramica, insegnandomi le note sul suo pianoforte, recitando le tanto amate poesie. Credo non sia stata amica di Ada Negri per caso.

Avvicinare all’arte, alla bellezza , creature che come me non nascevano in famiglie colte o ricche andava ben oltre la didattica nozionistica delle scuola elementare . Provo per lei un’ immensa gratitudine.

Farei mia una citazione da “I Miserabili ” di Victor Hugo modificandola:

Ricordatevi, amici miei: non esistono erbe cattive o buone   esistono soltanto buoni o cattivi coltivatori

Paola Gervasini

L’album dei ricordi

ll lungo periodo del lockdown è stato per me il momento propizio per sistemare armadi e cassetti che da tempo erano in attesa di essere riordinati.

Proprio riordinando il ripiano di  un armadio ritrovo in una scatola il mitico “album dei ricordi “.  Lo apro e incomincio a sfogliarlo dalla prima pagina :  Anno Scolastico 1960 – 1961,  Classe quinta Femminile A, Insegnante Giuseppina Vimercati. Si stava concludendo il primo ciclo della scuola dell’obbligo ,ovvero le elementari ( allora si chiamavano così )  ed era perciò doveroso  chiedere,  all’insegnante e  alle compagne che avevano condiviso  con te il percorso scolastico dei 5 anni, di lasciare un pensiero, un disegno, una dedica, a ricordo di quel periodo.

Tornare al 1960 vuol dire fare un salto indietro di 60 anni,  in molte realtà e anche nella scuola tutto era diverso : classi numerose e soprattutto con un solo insegnante che oltre al non facile compito di educarti, aveva la responsabilità  di guidarti nell’apprendimento di tutte le materie, dall’italiano alla matematica, dalla religione alle scienze , dalla musica  al disegno. Una figura fondamentale quindi quella della maestra, un riferimento importante che avrebbe comunque lasciato il segno nel percorso scolastico e non solo.

E la mia insegnante è stata proprio lei , la Maestra Giuseppina Vimercati. La M maiuscola  è  decisamente d’obbligo perché a distanza di anni penso proprio di poter dire senza alcuna retorica , che oltre ad essere stata una brava insegnante la “signora Vimercati” è  stata una speciale educatrice. Molti sono i ricordi e gli episodi che si potrebbero raccontare .Per dirla però in poche parole penso di poterla definire così : appassionata al suo lavoro, competente, preparata,  autorevole ma non autoritaria , esigente per quello che ciascuna poteva dare e al tempo stesso comprensiva e indulgente ,  soprattutto attenta,  molto paziente con chi aveva qualche difficoltà . Nessuna si è mai sentita messa da parte o lasciata indietro. Tanti i valori in cui credeva e che ci ha trasmesso, la lealtà, la costanza, l’accoglienza, l’attenzione alle persone a alle cose,  il rispetto nei confronti di se stessi , degli altri e dell’ambiente , l’amore per le cose belle , per l’arte  e per la musica: la ricordo accompagnare il canto di noi bambine seduta al pianoforte che sapeva suonava con grande abilità.

E nel mio album dei ricordi, il primo bellissimo disegno è proprio quello della maestra  accompagnato da questa semplice dedica “con affetto” Giuseppina Vimercati. E a distanza di anni posso dire che l’affetto è stato davvero grande e alla mia Maestra vanno ancora oggi la mia riconoscenza e la mia gratitudine.

Cristina Nizzola

Cara Maestra,

oggi che l’abbiamo dovuta salutare, mi sento di scriverle perchè non potremo più lasciarci con la speranza di un altro incontro nella sua casa di Via Cavour. Mi ricordo quando al termine delle lezioni, in  procinto di andare in villeggiatura (così si chiamavano le vacanze estive), chiudevamo il quaderno con il suo indirizzo: Sig.ra Giuseppina Vimercati Origgi, Via Cavour, Bollate. Era un invito a scriverle e la certezza che, se avessimo avuto bisogno , avremmo potuto rivolgerci a lei. Una sicurezza che ora mi manca!

In tanti anni non ho mai pensato di chiedere il suo parere nei momenti cruciali della mia vita, anche perchè ho avuto sempre i miei affetti vicino, ma il suo inidirizzo è rimasto impresso nella mia mente, L’indirizzo non è soltanto quello del domicilio ma è soprattutto quelle delle scelte vitali, culturalmente, del proprio animo e in questo gli insegnanti sono consapevoli, sopratutto insegnati come lei.

La vita mi ha fatto ripercorrere un po’ della sua carriera scolastica, avendo insegnato per una dozzina di anni in quella scuola dove avevo ricevuto i suoi insegnamenti.

Negli ulltimi 30 anni (e a lei che stava per compiere 96 anni si può dire “gli ultimi 30”) ho vissuto con grande piacere le volte in cui ci incontravamo in giro per Bollate e con interesse chiedevo di lei alle sue nipoti, a sua nuora e al Direttore Carissimi.

Ho scoperto nuovi aspetti della sua vita, per esempio la sua attenta scelta dei libri che regalava ad ogni suo nipote per Natale, libri che con cura leggeva prima lei costringendoli ad aprirli solo quel tanto che bastava, senza sciuparli. Ciò che mi piacerebbe poter coltivare e infondere negli altri, giovani e no, è la sua curiosità per il mondo che (ho le prove!) le faceva leggere i giornali e ritagliare le recensioni di libri e mostre da distribuire ai parenti interessati.

“La mia maestra abita in quella casa”. Ogni volta che passavo di lì la indicavo alle mie figlie, sempre pensando che un giorno o l’altro sarei venuta a trovarla. E l’occasione c’è stata : circa 2 anni fa , intendendo raccontare la vita di Castellazzo degli ultimi 70-80 anni , ho scoperto che anche la sua carriera scolastica era iniziata lì. Sono venuta ad intervistarla : le sua mani erano le stesse, che si muovevano ad enfatizzare i ricordi, sempre lucidissimi , di scolari e di persone conosciute in tutte questi anni. L’emozione di averla alla presentazione del libro , l’anno scorso, è stata grandissima.  Elegante e pettinata con cura è stata l’invitata più importante insieme a Rosanna D’Alessio, due capisaldi della scuola elementare di Bollate.

E’ stata l’ultima volta che l’ho vista e come quella volta le invio un abbraccio e un bacio.

Chiara Genovese

 (pubblicato su Il Notiziario del 24/01/2001)

Interno di una classe nei primi anni 70. Sul banco astucci, matite colorate e penne pronti per l’uso – (Archivio Giordano Minora)

La maestra Vimercati, sempre elegante e pettinata con cura, in un immagine del 1993. Foto © Giordano Minora

Disegno originale eseguito dalla maestra Vimercati sul quaderno di Cristina Nizzola (Per gentile concessione di Cristina Nizzola)

Anno scolastico  1970/1971  Le alunne con la loro amatissima maestra (Per gentile concessione di Chiara Genovese)

Originario di Bollate, è nato nel 1948. Unico figlio maschio degli otto del dottor Antonio, medico condotto per antonomasia dell’allora paese, ha seguito le orme paterne in ambito professionale. Specializzatosi a Parigi in chirurgia vascolare, è stato per anni direttore responsabile dell’unità operativa complessa  di questa specialità presso il polo universitario di  Pavia e, successivamente, presso quello di Lodi. Tra gli incarichi ricoperti, è stato titolare della cattedra di chirurgia vascolare all’università di Pavia. Attualmente è componente del nucleo di valutazione dell’azienda ospedaliera di Lodi. E’ autore di diverse pubblicazioni scientifiche in materia di patologia vascolare
ANGELO ARGENTERI

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari ,la fotografia, la storia locale e lo  sport   sono sempre stati al centro dei suoi interessi. .Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni  Bollate 100 anni di immagini (1978) , Una storia su due ruote (1989) Il Santuario della Fametta (2010) La Fabbrica dimenticata (2010) Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014) . Ha curato anche diverse mostre fotografiche fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015) La Fabbrica dimenticata (2010) I 40 anni di Radio ABC (1977). E’ tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.

Giordano Minora