Alla mattina si preparava con la divisa da operaio: tuta blu, con sul taschino cucito il logo su sfondo bianco della ditta , che portava con un orgoglioso senso di appartenenza.
Mamma Anna , da abile sarta, gli aveva anche confezionato , utilizzando la stoffa di una divisa vecchia, una borsetta con manici: era la sua porta schiscetta. Così abbigliato, il basco in testa, ci salutava inforcando sempre la bicicletta pur abitando a poche decine di metri dall’ingresso della fabbrica. Alle 8 suonava puntuale la sirena di inizio lavoro.
Qualche minuto più tardi, anche noi uscivamo per andare a scuola. Passando davanti alla portineria, recintata da un grande cancello dove sotto una tettoia erano agganciate decine di biciclette , cercavamo con lo sguardo quella di nostro papà.
La parte di stabilimento che si affacciava in via Madonna in Campagna era chiusa sul fondo da una cancellata, con le inferriate dagli inconfondibili colori verde e giallo, al di là era era ubicata la mensa: al secondo piano della villetta degli uffici e confinante con il passaggio a livello.
Intorno a mezzogiorno cominciava la processione degli operai per la pausa pranzo, c’era chi si fermava a consumare il pasto nei locali e chi invece riempiva la schiscetta e tornava a casa per mettersi a tavola con la famiglia, la maggior parte di quelli che abitavano in zona . Ed erano davvero tanti. Nella nostra famiglia da quella schiscetta mangiavamo in tre, era sempre piuttosto abbondante il cibo, la cuoca non lesinava sulle porzioni.
Tornando da scuola notavamo questo via vai in entrata e in uscita, c’erano diversi turni, e ogni tanto incrociavamo il signor Stefano Pagani di Arese, collega e grande amico di nostro padre che , salutandoci dalla cancellata, ci offriva delle caramelle.
Poi, alle 17, ecco di nuovo il suono della sirena che decretava il fine lavori e pochi minuti dopo fuoriusciva una autentica fiumana di tute blu: chi a passo veloce per andare a prendere il treno, chi più amabilmente camminando e chiacchierando, chi in sella alla bicicletta, qualcuno in motorino , un vero e proprio esodo che si replicava ogni giorno.
Tra i tanti ricordi che si collegano anche alla nostra infanzia non possono mancare i pomeriggi passati al Cral, il dopolavoro. Nostra mamma ci accompagnava attraversando il ponticello sulla Garbogera ed entravamo nel grande giardino che si apriva sul davanti e dove faceva bella mostra un magnifico esemplare di salice piangente, con i rami cascanti che sfioravano la vasca in pietra all’interno della quale sguazzavano decine di pesciolini rossi , autentica attrazione per noi bambini . A fare da corona tutt’intorno, aiuole fiorite e sempre ben curate dai vari gestori che si sono susseguiti, gli ultimi in ordine di tempo i coniugi Zainaghi, indimenticabile il celeberrimo “baffo”. Al centro , si trovavano i gradini che portavano all’ingresso della villetta bar, dietro i tre campi da bocce. Il Cral era un luogo sempre molto frequentato non solo dai dipendenti ma da gente comune, famiglie e bambini per i quali erano state posizionate una piccola giostra in ferro, da far funzionare a spinta, e un’altalena. Quanti gelati abbiamo gustato su quei giochi. Inoltre, tra una bocciata, una mano a scopa , un piatto di pesciolini fritti accompagnati da una tazza di mista ( metà vino, metà spuma), non sono mancati, nel salone al piano superiore in perfetto stile liberty, pranzi e addirittura ricevimenti di nozze. Circostanze festose che finivano con cori che animavano e rallegravano la quiete della via. (Negli anni Ottanta, con l’arrivo della Berardi, il Cral è stato trasferito nei locali dismessi della ex mensa e sotto un capannone, limitrofo ai binari della ferrovia, sono stati allestiti i campi da bocce. La gestione è passata prima a Michelino , supportato dalla mamma, ex gestore del circolo Nuova Luce, e poi a Ennio e Graziella Casucci che lo hanno portato avanti fino alla chiusura definitiva).