Quelli che la Ceruti

L’album di famiglia

 “Alcuni ricordi  sono legati a emozioni profonde, e il passato merita di essere evocato senza fretta, nel rispetto di chi lo custodisce. A volte basta un gesto, come sfogliare insieme un vecchio album di fotografie. Le immagini sanno risvegliare memorie sopite.”

Giulia Depentor, scrittrice

La Ceruti costeggiava gran parte della via Madonna in Campagna, partiva dal passaggio  a livello di via Garibaldi e finiva proprio davanti alla nostra casa, allora una delle ultime  abitazioni lungo la strada che conduce a Cascina delle Monache. Di fronte c’era il  ponticello che sovrastava la Garbogera e conduceva al Cral , una villetta con salone  bar stile liberty, ampio giardino e ben tre campi da bocce, una vera e propria attrazione nelle calde serate estive.  Visto da bambine, lo stabilimento con i suoi ampi capannoni  risultava grande e imponente. Nostro padre Giuseppe ha trascorso 41 anni della sua vita lì dentro.

A sinistra, la Villa stile Liberty sede del Cral. A destra, il caratteristico comignolo che stava sopra la centrale termica © Foto Giordano Minora  

Alla mattina si preparava con la divisa da operaio: tuta blu, con sul taschino cucito il logo su sfondo bianco della ditta , che portava con un orgoglioso senso di appartenenza.

Mamma Anna , da abile sarta, gli aveva anche confezionato , utilizzando la stoffa di una divisa vecchia, una borsetta con manici: era la sua porta schiscetta. Così abbigliato,  il basco in testa,  ci salutava inforcando sempre la bicicletta pur abitando a poche decine di metri dall’ingresso della fabbrica. Alle 8 suonava puntuale la sirena di inizio lavoro.

Qualche minuto più tardi, anche noi uscivamo per andare a scuola. Passando davanti alla portineria, recintata da un grande cancello dove sotto una tettoia erano agganciate decine di biciclette , cercavamo con lo  sguardo quella di nostro papà.  

La parte di stabilimento che si affacciava in via Madonna in Campagna era chiusa sul fondo da una cancellata, con le inferriate dagli inconfondibili colori verde e giallo,  al di là era era ubicata la mensa: al secondo piano della villetta degli uffici e  confinante con il passaggio a livello.

Intorno a mezzogiorno cominciava la processione degli operai per la pausa pranzo, c’era chi si fermava a consumare il pasto nei locali e chi invece  riempiva la schiscetta e tornava a casa per mettersi a tavola con la famiglia, la maggior parte di quelli che abitavano in zona . Ed erano davvero tanti. Nella nostra famiglia da quella schiscetta mangiavamo in tre, era sempre piuttosto abbondante il cibo,  la cuoca non lesinava sulle porzioni.

Tornando da scuola notavamo questo via vai in entrata e in uscita, c’erano diversi turni, e ogni tanto incrociavamo il signor Stefano Pagani di Arese, collega e grande amico di nostro padre che , salutandoci dalla cancellata, ci offriva delle caramelle.

Poi, alle 17, ecco di nuovo il suono della sirena che decretava il fine lavori e pochi minuti  dopo fuoriusciva una autentica fiumana di tute blu: chi a passo veloce per andare a prendere il treno, chi più amabilmente camminando e chiacchierando, chi in  sella alla bicicletta, qualcuno in motorino , un vero e proprio esodo che si replicava ogni giorno.

Tra i tanti ricordi che si collegano anche alla nostra infanzia non possono mancare i pomeriggi passati al Cral, il  dopolavoro. Nostra mamma ci accompagnava attraversando il ponticello sulla Garbogera ed entravamo nel grande giardino che si apriva sul davanti e dove faceva bella mostra un magnifico esemplare di salice piangente, con i rami cascanti che sfioravano la vasca in pietra all’interno della quale sguazzavano decine di pesciolini rossi , autentica attrazione  per  noi bambini . A fare da corona tutt’intorno,  aiuole fiorite  e sempre ben curate dai vari gestori che si sono susseguiti, gli ultimi in ordine di tempo i coniugi Zainaghi, indimenticabile il celeberrimo “baffo”.  Al centro , si trovavano i  gradini che portavano all’ingresso della villetta bar,  dietro i tre campi da bocce. Il Cral era un luogo sempre molto frequentato non solo dai dipendenti ma da gente comune,  famiglie e bambini per i quali erano state posizionate una piccola giostra in ferro, da far funzionare a spinta, e un’altalena. Quanti gelati abbiamo gustato su quei giochi. Inoltre, tra una bocciata, una mano a scopa , un piatto di pesciolini fritti accompagnati da una tazza di mista ( metà vino, metà spuma), non sono mancati, nel salone al piano superiore in perfetto stile liberty, pranzi e addirittura ricevimenti di nozze. Circostanze festose che finivano con cori che animavano e rallegravano la quiete della via. (Negli anni Ottanta, con l’arrivo della Berardi, il Cral è stato trasferito nei locali dismessi della ex mensa e sotto un capannone, limitrofo ai binari della ferrovia, sono stati allestiti i campi da bocce. La gestione è passata prima a Michelino , supportato dalla mamma, ex gestore del circolo Nuova Luce, e poi a Ennio e Graziella Casucci che lo hanno portato avanti fino alla chiusura definitiva).

Enrico Minora e Gustavo De Ponti, montatori in trasferta in una fabbrica a Drammen – Norvegia febbraio/marzo 1983 © Gentilmente concessa da Enrico Minora

Uno degli episodi che  ci è rimasto maggiormente nel cuore è stata senza dubbio  la messa di mezzanotte di Natale del 1975, celebrata da monsignor Giuseppe Sala all’interno della fabbrica occupata perché si era avviata la prima delle periodiche  crisi aziendali. Riunire dipendenti, famiglie, autorità e cittadini sotto quel capannone e in mezzo agli enormi macchinari è stato qualcosa di indimenticabile .

Nell’occasione, il papà, emozionato, ci  ha mostrato la sua postazione di lavoro. Ricordo il grigiore intorno a quegli impianti, con schiere di attrezzi sistemati in maniera ordinata: lui disegnatore meccanico che ci mostrava le linee  curve che tracciava su enormi blocchi di ferro.

Don Giuseppe Sala nel dicembre del 1975 nei capannoni della fabbrica © Foto Giordano Bordegoni

Tuttavia, per me Cristiana, il ricordo più intimo  e dolce che conservo  è quello che mi risuona dentro come una lezione di vita tutte le volta che lo evoco:  alla domanda ”perché non vai a piedi ?”, che gli ponevo ogni mattina non appena inforcava la bici per fare i 200 metri che lo separavano dalla fabbrica, lui di rimando replicava ,“ per non arrivare in ritardo, ecco perché la uso”. Allora  la cosa mi faceva sorridere,  a distanza di anni  mi commuove  pensando a quel suo innato senso del dovere.

Cristiana e Chiara Panza

Capita di aprire una scatola trovata nascosta in un armadio e ritrovarsi tra le mani una vecchia foto di papà Innocente sul banco di lavoro alla Ceruti, l’azienda meccanica nella quale in qualità di operaio specializzato ha trascorso tutta la sua vita lavorativa, vantandosi di non aver mai timbrato il cartellino in rosso. A testimonianza di un attaccamento professionale e di uno scrupoloso senso del dovere .Grazie a quello scatto, il cassettino della memoria si è aperto e mi ha fatto tornare bambino facendomi rivivere  le giornate dell’infanzia. Io con indosso il grembiule nero e sulle spalle la cartella  pronto per andare a scuola , il papà, tuta blu e schiscetta in mano, pronto per il lavoro. Insieme percorriamo  il breve tratto di strada che da via Turati, dove abitavamo, sfocia in via Garibaldi. Un rapido saluto, poi lui svolta a sinistra per recarsi in fabbrica, mentre io attraverso la strada per varcare l’ingresso della scuola elementare situata nella stessa via.  La memoria corre proprio  a quella schiscetta perché, una volta rientrato a casa dopo le ore di lezione sui banchi, rappresentava il mio pranzo. Mi sembra ancora di sentire il sapore del ragù sui maccheroni  o il profumo del minestrone. E  che porzioni abbondanti!

La festa vera era però d’estate quando, con il suo “Suv” a due ruote della Bianchi, ci portava alle sette cascate a fare il bagno. Mio fratello Gianni davanti e  io sulla canna della bicicletta, il sapone e le salviette arrotolate e legate dietro la sella, destinazione terza cascata, la nostra . A quei tempi ognuno aveva la sua preferita. 

Volgere lo sguardo indietro spesso fa male, da un senso di nostalgia del come eravamo che non tornerà più. Però che bei tempi.

Antonio Monti

Ricordi della Ceruti?  Il primo pensiero che mi ritorna in mente è l’ immensa macchia blu che dalle 17 di ogni  giorno usciva dai cancelli , una macchia blu rappresentata dalle  centinaia di tute degli operai che  si lasciavano alle spalle la fabbrica. Tra queste centinaia di  volti, rivedo quello di mio padre Alessandro, per tutti Sandro, che in Ceruti ha lavorato per 30 anni, da quando è tornato dalla prigionia alla fine delle seconda guerra mondiale fino al 1 settembre del 1976, l’avvio della pensione.

Abitavamo nel grattacielo di via Fermi, quello della cooperativa rossa (chiamata così perché fondata dai socialisti) e quindi eravamo vicinissimi al passaggio a livello di via Madonna in Campagna, al di là del quale c’era la Ceruti.  L’immagine mattutina  era sempre la stessa: cinque minuti prima delle 8 vedevi diverse tute blu che uscivano dai portoni con in mano l’immancabile schiscetta ( in ogni caseggiato del rione abitavano uno o due, se non di più, di queste tute blu , cito a memoria: Gino Rossi, Barlassina “el russ” per il colore dei capelli, Cesare Ghioni, Libero Santambrogio, Carlo Castelli, e ancora,  Sosio, Sacchini, Zanotti, Sanvito, i più giovani Paolo Bonini e Enrico Minora e diversi altri)  che  si salutavano dandosi la voce e insieme si incamminavano al lavoro.

La “schiscetta” era un contenitore per il cibo preparato a casa e portato al lavoro per essere consumato durante la pausa.  I coperchi della schiscetta,  oltre che servire  per la sua chiusura ermetica,   erano utilizzati per separare il primo dal secondo.  © Foto Giordano Minora

Se le sbarre erano abbassate nessun problema, si passava sotto perché il cartellino doveva essere timbrato entro l’orario canonico delle 8. A proposito della distanza casa luogo di lavoro, sono dell’idea che mio padre avesse un imbuto per quando si recava in mensa per mangiare poiché,  tempo bello o brutto, alle 12,30 era  regolarmente in casa con la frutta fresca in tasca, sosteneva che era ancora troppo acerba per essere assaggiata. O forse era il pretesto per riuscire a ritagliarsi  una ventina di minuti per potersi dedicare tranquillamente alla lettura de l’Unità, che il giornalaio della cooperativa gli metteva sullo zerbino ogni mattina. Dalle sue letture quotidiane di quel periodo mi è rimasta impressa la parola “congiuntura”,  termine che stava a significare un periodo non facile  da affrontare dal punto di vista economico e che oggi chiameremmo recessione. Bambina la immaginavo  come qualcosa di brutto in ambito sociale. Papà  era infatti sindacalista e me lo ricordo raccontare di accesi dibattiti in assemblea  e di partecipazione ai primi grandi scioperi dei metalmeccanici degli anni Settanta, il cosiddetto autunno caldo. Mobilitazioni che avevano il fine di migliorare condizioni di lavoro e ottenere salari adeguati. Purtroppo è venuto a mancare non appena è andato in pensione e così non ha potuto vedere i risultati delle varie vertenze contrattuali che si sono susseguite  e si è risparmiato il triste epilogo della sua amata fabbrica. Era fiero di indossare  quella tuta blu con alla sinistra la targhetta Ceruti e di essere nel contempo orgoglioso di rappresentare  le esigenze  occupazionali di quelle che all’epoca erano chiamate maestranze.  La nostra è stata, tra l’altro, una famiglia strettamente legata ai destini della Ceruti in quanto, seppur con tempi più o meno lunghi, anche i tre fratelli di mio padre, gli zii Franco, Arturo e Carlo ,hanno indossato quella tuta blu simbolo dello stabilimento di via Madonna in Campagna . Non solo, pure il fratello di mia mamma , Angelo Landoni,  vi era impiegato come disegnatore meccanico. Viaggiava spesso  tra Italia, Europa e Stati Uniti con lo scopo di verificare che le macchine ,con i pezzi da lui disegnati,  una volta giunte a destinazione e montate in loco fossero  perfettamente funzionanti.

Nadia Toja

I vagoni ferroviari che entravano nell’officina per il carico e lo scarico  delle merci  sono il mio primo ricordo di bambino che abitava all’isola san Domenico.  Assieme a vecchi registri aziendali che mi mostrava  l’ultimo custode Felice Tenconi  (conosciuto come “el sciur Felice barbetta” che con il suo laboratorio ricami abitava nel cortile che fiancheggiava il fontanile che delimitava la via San Domenico), rappresentavano  il lascito  storico della società  anglo americana  Babcok  & Wilcox : alla produzione di   caldaie   a vapore per locomotive si erano infatti sostituite le macchine utensili della Ceruti . I capannoni della Ceruti  sono stati la vita lavorativa di mio papà Giovanni, entrato in fabbrica di ritorno dalla campagna di Russia della seconda guerra mondiale.  Doveva compiere pochi passi a piedi  per recarsi al lavoro: attraversava il passaggio a  livello  e   varcava  il cancello  della portineria  dentro la quale  vigilava Bruno Galluzzi, portinaio che con  la moglie Lina e il figlio Luigi abitavano proprio sopra la guardiola d’accesso.  Capo officina  il signor Strada , al quale si aggiungerà  più tardi come impiegato il figlio Andrea. Mio papà era addetto al  reparto elettricisti , guidato inizialmente da  Martelli che in seguito, assieme all’impiegato Bona,  ha fondato la MBM , azienda di motori elettrici a Milano. I suoi colleghi erano Manfredini, Bossi, Martino Panza, con capo reparto Malacrida, che veniva ogni giorno da Caslino d’Erba. Negli anni Settanta fece scalpore l’arrivo dell’ ingegnere americano Robert Kurtwell  protagonista di una autentica rivoluzione  in fatto di rinnovamento tecnologico : ha progettato un’ attrezzatura modulabile, una sorta di tappetino  semovente ,che di fatto ha sostituito il ruolo manuale  dei cosiddetti  raschiettatori, ponendo  inconsapevolmente  fine a  quella che è passata alla storia come la leggenda dei fiori nella ghisa. Leggenda trasformata dalla Associazione Genitori del locale Istituto scolastico Primo Levi in una pièce teatrale con lo stesso titolo ,rappresentata dalla compagnia Teatro Periferico il 1 maggio 2009 negli spazi della ex Fabbrica Borroni. Indimenticabili pure gli anni delle difficili  e  periodiche vertenze in difesa dell’occupazione e contro la chiusura dell’azienda, sfociati in assemblee pubbliche, manifestazioni , presidi e occupazioni. Sono rimasti nella memoria collettiva alcuni momenti simbolici  di queste  mobilitazioni : la messa di mezzanotte nella fabbrica occupata del Natale del 1975, con tanto di televisione e stampa nazionale che hanno documentato l’evento; l’incontro di una delegazione di dipendenti con il presidente del consiglio Bettino Craxi, il 13 aprile del 1985 in occasione  del conferimento del titolo di città a Bollate; lo spettacolo del Piccolo Teatro di Milano su  vita e poesia del poeta russo Vladimir  Majakovskij, messo in scena in segno di solidarietà negli anni Ottanta, con impianti e macchinari a far da scenografia e i capannoni a far da sfondo.

Luigi Ghezzi

Erano in  sei quelli dell’isola san Domenico che lavoravano alla Ceruti. Oltre a mio papà Giovanni, Guglielmo Giavedoni e  Eugenio Verga – abitavano tutti nello stesso cortile – e poi  Luigi Meroni,  Antonio Cattaneo e  Lidia Galli (consorte di quel Luigi che è stato uno dei pionieri della tv a Bollate con il suo marchio “Legal”). Questi ultimi tre erano quelli che dovevano compiere qualche passo in più. Meroni, addetto al magazzino, abitava  dietro il  caseggiato nella limitrofa via Marco Polo, mentre la signora Galli, impiegata, e Cattaneo, assunto come operaio e poi diventato disegnatore, abitavano  poco più in là in via San Giacomo. Vuoi per la vicinanza a casa, vuoi perché fonte di reddito, tutti e sei  sentivano la Ceruti come una cosa di famiglia,  nutrivano un forte senso di attaccamento alla fabbrica: mai in ritardo, sempre puntuali al fischio della sirena di inizio lavori.  Un’ identificazione con il posto di lavoro che porterà Meroni a divenire membro del Consiglio di Fabbrica nel periodo delle difficili vertenze occupazionali di metà anni Settanta, mentre papà Giovanni ha visto coronata la sua dedizione con il riconoscimento per i 25 anni di anzianità aziendale, culminato nella cerimonia ufficiale all’albergo Commercio nel centro di Milano dove, insieme ad altri colleghi meritevoli, è stato insignito dell’orologio d’oro quale segno di gratitudine per l’operato svolto. Riconoscimento che lo ha reso orgoglioso e che custodiamo ancora come simbolo del suo legame con la  Ceruti. Testimonianza di un’ epoca nella quale  l’azienda sapeva ancora riconoscere impegno e merito, oltre che attenzione alle esigenze dei lavoratori stessi. Un esempio che vale per tutti: dietro il Cral, dove ora sorge la scuola di via Montessori, metteva a disposizione dei dipendenti che lo volevano appezzamenti di terreno da coltivare come orti. Un modo per sentirsi a casa pur essendo sul luogo di lavoro

Cesare Ghezzi

Se dovessi usare una parola per descrivere la Ceruti probabilmente userei nostalgia. Nostalgia da intendersi come un sentimento malinconico dovuto a un tempo lontano che  si è  ormai tramutato in una percezione , quella che ha dato  un senso al presente e che, visto in prospettiva, ci ha permesso di coltivare il futuro. Per la mia famiglia questa azienda è stata tutto. Ha dato lavoro a mio padre, mia madre,  a mio zio Eugenio e suo figlio Alfredo, uno dei  sindacalisti che si sono maggiormente impegnati nella fasi calde delle  diverse vertenze occupazionali. Dietro a quelle mura,  oltre all’impiego quotidiano, si sono costruiti legami e amicizie che  hanno scavalcato i cancelli  e sono durati negli anni. Papà Alfonso faceva il magazziniere, catalogava i pezzi, li sistemava sui bancali e forniva gli attrezzi  agli operai che li richiedevano. Mamma Antonietta invece lavorava in mensa con altre cinque donne ( rammento i nomi di tre di loro, Livia, Noemi ,“Pinin”) e un cuoco. Serviva ai tavoli durante gli orari del pranzo, poi rincasava nel pomeriggio e   tornava  in fabbrica, verso le 18 , per il turno mensa serale. Io la aspettavo fuori con la mia bicicletta per accompagnarla al ritorno. Era diventato un rituale, per noi, quello di pedalare verso casa prima di cena. Mia madre era felice e si sentiva appagata nello svolgere questa mansione, glielo si leggeva negli occhi, soprattutto quando ci raccontava di come in tono scherzoso venisse accusata di aumentare le porzioni di pasta  quando doveva servire mio papà. 

La portineria della fabbrica. Sullo sfondo la Chiesa di Madonna in Campagna © Foto Giordano Minora

Si era instaurato un clima davvero familiare in Ceruti che si rifletteva anche al di là del lavoro in una rete di relazioni tra colleghi e  fatta di confidenze, consigli, favori reciproci. Ricordo in proposito di quando mia madre mi indirizzò dal figlio di una sua collega che faceva il carrozziere per sistemare la macchina. Alfonso e Antonietta sono riusciti a tagliare il traguardo della pensione prima del triste epilogo della chiusura della fabbrica. Un avvenimento che abbiamo appreso  con profondo dispiacere perché quei capannoni hanno custodito un pezzo  di storia  della mia e di tante famiglie bollatesi  E quando un muro cade se ne vanno pezzi di vita vissuta, la caduta dei calcinacci si porta via immagini di una quotidianità  che riemerge come memoria ma che non riapparirà. Un passato che sparisce con il suo carico di rimpianti e ricordi che hanno però  dato un senso al presente, permettendo di coltivare un futuro. Anche se ormai remoto.

Santino Boniardi

Il mi ricordo è ormai lontano e anche poco nitido per ripercorrere il periodo in cui mio papà Libero era operaio specializzato alla Ceruti. Ci ha lavorato per oltre 40 anni fino al raggiungimento dell’età della pensione nel periodo 1984/85. Non so quali fossero di preciso le sue mansioni, non ne parlava mai nel dettaglio: ricordo solo che si occupava della produzione e dell’assemblaggio delle macchine utensili,  settore in cui l’azienda di via Madonna in Campagna era leader, che venivano poi installate in Italia, in Europa e nel resto del mondo. E’ proprio il caso di dirlo, un vanto per la manifattura italiana  grazie al made in Bollate. Molti i suoi colleghi che  risiedevano in paese e con i quali c’era comunanza di intenti e cordialità , in particolare faceva coppia fissa con Innocente Monti, divenuto nel tempo un caro amico. Da lavoratore esperto ha insegnato a molti giovani operai le procedure corrette e sicure da eseguire nelle varie fasi della lavorazione. Era  infatti attento alla tutela e all’incolumità dei dipendenti per evitare il rischio di incidenti, sempre in agguato in una fabbrica metalmeccanica. Un ricordo piacevole dell’infanzia è legato agli anni in cui ero accudito dalla nonna: allo scoccare del  mezzogiorno, quando il papà rincasava per il pranzo, lasciava  alla nonna la “calderina” per consumare il pasto della mensa e mi riaccompagnava a casa. Io e lui eravamo un po’ schizzinosi e preferivamo gustare i manicaretti che mamma Tina ci preparava.  Erano parecchi quelli  della Ceruti che abitavano nel nostro rione della Cooperativa Edificatrice, tanto che, durante le vacanze estive, le giornate di noi bambini -trascorse per buona parte a giocare in cortile sulla “ mitica rotonda” –  in quell’epoca pre cellulare erano  scandite al mattino alle 12 e al pomeriggio alle 17 dal suono delle sirene della fabbrica, ossia gli orari canonici della pausa pranzo e della fine lavori degli operai. A quel punto sapevamo che dovevamo stare allerta perché era in arrivo dalla via Fermi il lungo serpentone di tute blu, facilmente riconoscibile, che  tornavano a casa in ordine sparso .E per noi piccini era il segnale che era scoccato il momento di rientrare tra le mura domestiche. L’epoca della Ceruti è indissolubilmente legata ad esperienze giovanili e familiari che appartengono  al passato ma che non posso dimenticare seppur avvolte in un velo di nostalgia.

Paolo Santambrogio

Mio padre Adriano, classe 1923,  aveva svolto il servizio militare a Torino, fatto prigioniero durante la guerra è stato deportato nel campo di concentramento di Dachau. Tornato a casa è approdato in Ceruti dove ha compiuto tutta la sua carriera lavorativa fino alla pensione.  Operaio specializzato, era affiancato da un gruppo di colleghi molto affiatati tra loro, tanto che ognuno era stato battezzato con un soprannome: lui era detto “veleno” per le sue battute sempre fulminanti;  Lino era “spantega” perché esagerato nei racconti;  Renato era “legura” in quanto appassionato cacciatore. Insomma, una squadra coesa sia sul lavoro che nel dopo . Nel corso degli anni è stato promosso capo reparto montaggio e collaudo ed è iniziato il periodo delle trasferte per seguire le diverse fasi  di assemblaggio dei macchinari, soprattutto nei paesi dell’Est, a cominciare dalla Romania e dalla ex Cecoslovacchia. I periodi di lontananza da casa potevano durare dai 2 ai 3 mesi. Così fu grande la mia incredulità quando, intorno ai 10 anni, mentre stavo tornando dall’oratorio in bicicletta pedalando a tutto gas, nei pressi della stazione ferroviaria mi era sembrato di sentire la sua voce che urlava il mio nome. Pensai ad un abbaglio, immaginavo fosse ancora a Bucarest. Appena rincasato, sento suonare il campanello e me lo ritrovo davanti trascinandosi la sua enorme valigia. Fu una gioia immensa questa inattesa visione. Il papà mi ha poi confessato che vedendomi sfrecciare a tutta velocità aveva provato a chiamarmi  senza ottenere però risposta.  E questo particolare non ha fatto altro che aumentare la piacevole sorpresa.

Aldo Cimbro

Orologio al merito di anzianità consegnato dalla Ceruti a Adriano Cimbro nel 1967

Originario di Cavarzere, papà Abramo, classe 1927, è approdato a Bollate sul finire degli anni Cinquanta. Con mamma Elvia, originaria di Chioggia, e una  famiglia in divenire . Alla fine : due femmine, Maria Grazia e Elisabetta, e due maschi, Enzo e Davide. Primo domicilio la piccola villetta  che si affacciava proprio sul ponte della Garbogera , che qui svoltava da via Porra per immettesi e fiancheggiare via Madonna In Campagna passando davanti alla stecca degli spogliatoi e del reparto termico , quello sormontato dal caratteristico comignolo in mattoni rossi. Proprio in Ceruti ha trovato il primo impiego, quindi solo qualche decina di passi per presentarsi al lavoro. Ho ancora nella mente il profumato ritorno a casa  per il pranzo con l’ abbondante schiscetta della mensa, spesso il nostro pasto. Per noi bambini era poi una autentica cuccagna il vicino  piccolo spaccio,  con la porticina verde scuro che dava proprio sul ponte : si comprava la pasta, qualche genere alimentare,  soprattutto,  per noi piccini , la Coca Cola e le indimenticabili scarpette di liquirizia. Il gestore  era un uomo gioioso e simpatico e per noi era una specie di babbo Natale  sia per la sua mole piuttosto corpulenta sia per i suoi modi paciosi e cortesi. E’ durata pochi anni l’avventura di papà in Ceruti, poi si è trasferito dapprima alla Cimbali e infine alla Oerlikon. Sarà che ero piccola e cominciavo a sorprendermi delle scoperte che andavo a compiere, ma  gli anni della Ceruti li ricordo come un momento davvero spensierato della mia infanzia.

Maria Grazia Necchio

Papà Adriano, classe 1936,   è stato uno dei principali “inviati speciali” della Ceruti. Stava pochissimo a casa, era sempre in trasferta: ha girato praticamente tutta l’Italia. Abitavamo  in fondo alla Vignetta – via De Amicis- e ogni volta che lo vedevo partire lo accompagnavo al cancello con un velo di malinconia per quel senso di distacco familiare. Portava sempre con sé la borsa con in bella evidenza la scritta Ceruti, la stessa che campeggiava sul “toni “ che lui era orgoglioso di indossare come segno  di appartenenza ad una identità produttiva locale. In una delle tante trasferte italiane, una settimana  a Firenze ,ha portato anche noi della famiglia. Era estate e l’abbiamo trascorsa tutti insieme come fosse una vacanza. La trasferta più difficile è stata invece quella  che ha compiuto in Iran, tanto che quando è tornato,  talmente schifato, rammento ancora che ha sentenziato: “mai più”.  Ricordi piacevoli della sua permanenza in Ceruti sono legati  anche ai momenti vissuti al Cral. 

A sinistra, ill giovane Martino Castiglioni al lavoro su una macchina Ceruti. A destra, i macchinari Ceruti utilizzati nella officina di Adriano Castiglioni

 Il sabato e la domenica papà giocava a bocce o a carte con i suoi colleghi, mentre noi bambini , io, mia sorella Agnese e i miei fratelli, Martino e il piccolo Alberto, ci divertivamo alla fontana coi pesci rossi.  E quante belle scorpacciate di pesciolini fritti, specialità della casa,  la domenica sera per chiudere la settimana in allegria. A proposito di cibo, rimane indelebile il ricordo del sapore della pastasciutta che fuoriusciva dalla schiscetta che papà portava a casa per il pranzo e che sovente finiva nel nostro piatto. Il tempo scorre ma certi ricordi non si cancellano. Anzi, talvolta riemergono e sembra proprio di riviverli.

Annetta Castiglioni

La Ceruti è parte integrante della mia infanzia. Ci abitavo proprio di fronte in vicolo Madonna in Campagna – conosciuto allora anche come isola san Fermo- e quindi ogni volta che mi affacciavo alla finestra lo sguardo non poteva che soffermarsi sulla sequela dei capannoni dentro uno dei quali ci lavorava mio papà Aurelio.  Entrato verso la fine del 1960 vi ha lavorato per una decina d’anni: è morto giovane nel 1971. Io e mia sorella Patrizia, allora bambine, abbiamo  perciò piccoli e sparsi ricordi: la breve camminata a piedi che compiva per recarsi al lavoro, le serate al Cral a giocare a bocce e dove, spesso in estate, noi lo accompagnavamo per gustarci insieme un gelato.  In particolare, la memoria non può  non soffermarsi sulla abbondante e profumata schiscetta che puntuale arrivava ogni mezzogiorno e che rimane, proprio per quel suo significato di desco familiare, uno dei ricordi più indelebili di quel periodo. 

Antonella Banfi

Quante volte sono entrato a caricare e scaricare materiale in quei capannoni che erano davvero un fiore all’occhiello dell’industria italiana e bollatese nel mondo. Ricordo ancora l’entrata con il camion dal cancello di via Madonna in Campagna, il saluto alla guardia e poi via in direzione magazzino o nel cortile dove erano posizionati all’aperto i basamenti. Mi spiegavano che siccome erano di una particolare ghisa dovevano stagionare incuranti delle intemperie. In magazzino si usava il carroponte per caricare tutti i pezzi che poi, attraverso spedizionieri internazionali, venivano inviati in giro per il mondo in compagnia dei tecnici che inviati sul posto dovevano montare i macchinari, soprattutto le mastodontiche alesatrici o i torni paralleli. A volte, tornando dai viaggi con il camion, ci scappava la birretta al Cral. Qui si potevano fare quattro chiacchiere sui lavori fatti in giornata con gli operai che finivano il turno, sempre scandito dalle sirene che puntuali segnalavano  quotidianamente l’orario d’inizio del mattino e quello della fine alla sera.  Un giorno si venne a sapere che, dopo svariate vicissitudini, l’azienda era stata acquistata dalla Berardi di Brescia , l’inizio di un susseguirsi di  periodi di cassa integrazione e licenziamenti che hanno posto fine a un glorioso marchio industriale. Tra i tanti lavoratori che ne hanno fatto le spese anche mio suocero Adriano Castiglioni, da  semplice operaio specializzato era diventato montatore esperto, sempre in giro in Italia e nel mondo. Con il figlio Martino ha poi aperto una piccola officina meccanica che lavorava con  macchine di produzione Ceruti. Un modo per sentirsi ancora legato ,seppur indirettamente, a quel marchio che aveva nel cuore.

Ivan Dusi

Inizi anni Cinquanta – complesso musicale accompagna una festa danzante al  Cral della Ceruti – (Archivio Giordano Minora)

Carlo Lino Marazzi, mio papà, ha lavorato alla Ceruti negli anni 60/70. Era tornitore. Nello stesso periodo, la mia famiglia ha avuto la proposta di gestire il bar all’interno della mensa, ubicata al piano di sopra della villetta degli uffici e che confinava con il passaggio a livello di Madonna in Campagna, il mitico numero 10. Mamma Vittoria Daghini, famosa perché aveva dei bellissimi capelli color rame, e nonna Luigia si sono così assunte l’impegno di condurlo. Pure io, quando tornavo da scuola, le aiutavo: addetta alla rivendita delle sigarette. Avevo 12-13 anni. Mamma preparava i filetti di acciughe con aglio e prezzemolo e i formaggini di capra sottolio, due leccornie che andavano letteralmente a ruba. In cucina rammento la cuoca Antonietta, che insieme alle altre colleghe, di cui mi sfugge il nome, avevano sempre un sorriso e un complimento per me. Successivamente, siccome cercavano un gestore per il Cral, ci siamo trasferiti nella villetta più avanti- per raggiungerla bisognava superare il ponticello sopra la Garbogera – con i campi da bocce , la fontana con i pesciolini rossi e la giostrina dei bambini. Quando finiva il turno di lavoro in officina, anche papà si aggregava nell’aiutare al bar, specialmente la sera dove spesso vi erano gare di bocce. Tra i frequentatori abituali, ricordo Isidoro Silva,  Adriano Castiglioni, Pagnoncelli, Martini, Codognelli,Verga e tanti altri. Poi è scoccata l’ora di compiere scelte diverse perché l’impegno al dopolavoro si era fatto piuttosto impegnativo e l’età avanzava e così i miei hanno passato la mano. A 73 anni d’età questi ricordi sono riaffiorati  di fronte alle immagini della demolizione completa di quella che è stata una gloriosa fabbrica che ha visto la mia famiglia tra i protagonisti.  Rivedo  quei momenti trascorsi come giorni felici della mia gioventù.

Ambrogina Marazzi 

“C’è aria di famiglia in questo amarcord”. Prendo a prestito, parafrasandola, una celebre citazione di un film western di Sergio Leone per rileggere la rievocazione della Ceruti. Infatti, oltre a  Giuseppe “Teddy” Silva, cugino e omonimo di mio papà, in quella fabbrica ci hanno lavorato anche mio nonno Alfredo, mio zio Isidoro e mia zia Pina, addetta alla mensa. Un pezzo di famiglia è stato dunque parte di questa realtà imprenditoriale che ora sta scomparendo nel disinteresse generale per quello che ha rappresentato per Bollate sia a livello industriale che economico e sociale. Non si tratta però di rievocarla compiendo una mera operazione di nostalgia. Al contrario, penso sia doveroso  non smarrire il proprio passato, per guardare avanti con gli stessi valori e lo stesso impegno di allora.

Claudio Silva

Posso sostenerlo senza ombra di dubbio, la Ceruti è stata il benevolo convitato di pietra del mio matrimonio con Gianfranco Dal Molin. Questa fabbrica ha rappresentato per lui tutto un itinerario di vita, un autentico motivo di appartenenza, permettendogli oltretutto di conoscere il mondo in ogni sua latitudine. Ha varcato i cancelli  nel 1957, appena 17enne, e vi è rimasto, nonostante le vicissitudini societarie e occupazionali dell’ultimo periodo,  fino alla pensione nel 1992. Un attaccamento al luogo di lavoro che addirittura ci ha portato a trasferirci a Bollate da Milano dove risiedevamo, io in viale Premuda, dipendente dell’Alemagna, lui in Pier della Francesca , zona Bullona dalla cui stazione prendeva ogni mattino il treno delle Nord che  lo portava allo stabilimento di via Madonna in Campagna. Accogliendo la proposta del collega amico fraterno Carletto Codognelli, neo sposini abbiamo deciso di venire ad abitare a Bollate. Testimonianza concreta delle profonde relazioni e amicizie strette con diversi colleghi , che sono durate negli anni fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2023. Ha cominciato come operaio addetto al collaudo e di mansione in mansione e diventato uno dei montatori più capaci, tanto da divenire un autentico  “meccanico globetrotter”, proprio perché  conosceva pezzo per pezzo ogni macchina.  Davvero aveva sempre la valigia in mano. E non era mai certo il giorno del ritorno a casa. Per dire: doveva star via 20 giorni e rientrava invece dopo quaranta. Oppure capitava che ritornava a casa il venerdì dopo un mese di lontananza e, appena varcata la soglia d’ingresso, annunciava che il lunedì avrebbe dovuto ripartire per una nuova spedizione estera piuttosto lunga. Immaginatevi lo stato d’animo della giovane consorte. La prima trasferta, ancora fidanzati, a Palermo e da li  si è avviato un autentico giro del mondo con periodiche tappe in Italia, Russia, Cina, Canada, Europa dell’est e dell’ovest. Assenze da casa  dunque piuttosto prolungate e senza mai una conferma certa della data di rientro: è ritornato da una travagliata trasferta a Mosca giusto una settimana prima della data fissata per convolare a nozze. Viaggiare in quegli anni Sessanta – Settanta non era poi proprio agevole per raggiungere determinate destinazioni , i voli non avevano la frequenza di oggi, tant’è che nel 1972 per approdare in Cina ha trascorso ben 33 ore a bordo dell’aereo con scali a Roma, Karachi in Pakistan, Rangoon in Birmania e finalmente l’atterraggio a Pechino, accolto dal volto di Mao Tse-Tung che campeggiava ovunque quasi fosse un’ossessione. Anche le comunicazioni non erano facili a quell’epoca, ricordo che nel 1965  avevo appreso dalla televisione che c’era stato un tornado a Toronto e per avere sue notizie, dopo una attesa piuttosto angosciante di giorni, riuscii ad ottenere rassicurazioni indirette solo attraverso il centralino dell’azienda dove si trovava.  Stessa situazione di disagio che ho vissuto quando si trovava a Mosca nei giorni dell’invasione di Praga : dietro parecchie insistenze ho ottenuto un contatto telefonico tramite la direzione della Ceruti, accompagnato però dall’ammonimento di non parlare assolutamente di lavoro con mio marito. Un clima surreale da sopportare. Al ritorno mi ha raccontato che operavano in un ambiente difficilissimo, venivano scortati al lavoro e poi in albergo e da li non potevano uscire per le strade della capitale russa. Decisamente più rilassanti e tranquille le trasferte in Europa, addirittura ha stretto anche rapporti confidenziali con colleghi di altre aziende: conservo un quadro di un collega di uno stabilimento di Bruxelles, donatoci in risposta alla nostra partecipazione di matrimonio, e un piccolo cuore di ceramica regalatoci da un dipendente di una ditta di Wolverhampton per la nascita di nostro figlio Gianluca. Un altro episodio che sa di aria di famiglia  è quello capitato con una anziana vedova tedesca , Margarethe Pohler, che lo ospitava nella sua abitazione di Hannover in quanto non si erano trovati alberghi disponibili. Saputo che era un  provetto meccanico, gli ha mostrato una sorta di organizer, guasto da anni, nel quale era registrata la voce del marito defunto.

Cuore in ceramica regalato da un collega di Wolvwrhampton a Dal Molin per la nascita del figlio 

Gianfranco è riuscito a ripararlo permettendole così di farle risentire la voce. L’ha resa  talmente contenta che per riconoscenza la signora ogni mattina abbondava con le fette di torta per la colazione. Momenti felici delle lunghe giornate in trasferta nelle quali, in particolare la sera, si sentiva la solitudine e la lontananza da casa, talvolta si facevano coraggio e si consolavano a vicenda , soprattutto con qualche giovane collega che accusava maggiormente la nostalgia casalinga pensando alla moglie e ai figli piccoli che erano lontani. C’era però anche un lato positivo, nei ritagli di tempo dalle lunghe giornate lavorative (si puntava ad accorciare i tempi di permanenza fuori casa), è riuscito a visitare luoghi e monumenti che lo hanno affascinato come le cascate del Niagara; il sorprendente spettacolo della illuminata piazza Rossa di notte;  il sorvolo del Polo Nord con scalo ad Anchorage in Alaska, dove grazie al fuso orario diverso è riuscito ad arrivare a casa un giorno prima del previsto. Le difficoltà delle trasferte erano quelle di far combaciare le coincidenze aeree per calcolare i tempi di arrivo. Abbiamo perciò deciso, per evitare preoccupanti attese, che appena raggiungeva l’aeroporto o la stazione finale mi chiamava. Proprio per questo è capitato che alcune trasferte europee , come quella a Budapest o in alcune città tedesche, le effettuasse con la sua Fiat 1100. Talmente legato ai luoghi di lavoro che lo hanno visto protagonista che un anno abbiamo fatto le vacanze in Francia  in un itinerario che prevedeva la visita alle città dove erano situate le fabbriche in cui era stato a lavorare, da Parigi a Saint- Etienne fino a Ruelle, centro ai confini con la Spagna. Naturalmente non posso dimenticare il rapporto di familiarità e amicizia sviluppatosi con tanti colleghi, sarebbe troppo lungo citarli tutti: talvolta anche dalle trasferte lo chiamavano a casa per avere consigli e suggerimenti. Un rapporto di confidenza proseguito pure negli anni della pensione in un legame quotidiano, basti pensare che con il collega Marco Vaghi si trovavano  sempre ogni mattina, quasi fossero ancora sul posto di lavoro, per passeggiare a Bollate. Pure da questo particolare si può comprendere come  la Ceruti sia stata un benevolo convitato di pietra del mio matrimonio.    

Annamaria Dal Molin

L’ultimo segno del passato “sociale” della Ceruti  dopo l’abbattimento della villetta dove avevano sede gli uffici dietro la quale vi era il campo delle bocce del Cral dei dipendenti

Una vita a maneggiare notizie tra giornali, radio e tv,  tanto da farne un libro autobiografico, Ho fatto solo il giornalistaMilanista da sempre, (ritiene che la sua più bella intervista l’abbia realizzata con Gianni Rivera), appassionato di ciclismo, (è coautore del libro Una storia su due ruote), amante della musica jazz (è presidente dell’Associazione Bollate Jazz Meeting). Gaudente a tavola, soprattutto in buona compagnia.  Insomma, gran curioso di storie, di umani e di situazioni.
Paolo Nizzola

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari, la fotografia, la storia locale e lo  sport sono sempre stati al centro dei suoi interessi. Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni Bollate 100 anni di immagini (1978), Una storia su due ruote (1989), Il Santuario della Fametta (2010), La Fabbrica dimenticata (2010), Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014). Ha curato anche diverse mostre fotografiche, fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015), La Fabbrica dimenticata (2010), I 40 anni di Radio ABC (1977). È tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.
Giordano Minora