Quel treno scambiato

Le vittime innocenti della Vignetta

Funerali delle vittime del bombardamento della Vignetta. In questa foto inedita, lo sgomento della popolazione bollatese per la tragedia che ha colpito la città (Archivio Origgi/Mesini)

“La storia è testimonianza del passato, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, annunciatrice dei tempi.” Cicerone

Il tradimento che diventa tragedia. La mattina del 30 gennaio del 1945, il mantello candido di neve che copre Bollate si colora di rosso sangue a causa del bombardamento, da parte delle forze alleate, di un treno con passeggeri civili: all’ultimo momento ha sostituito il transito di un programmato convoglio militare tedesco.

Una drammatica pagina di storia cittadina richiamata, ogni ultima domenica di gennaio, con una funzione religiosa nella chiesa di Madonna in Campagna, luogo dove furono ricomposte buona parte delle decine di salme. E’ il nostro “Giorno della Memoria”, una commemorazione che, insieme al suffragio per i defunti – tra loro anche alcuni bollatesi – vuole rappresentare un monito: “senza memoria vengono meno i fondamentali stessi della coscienza collettiva“.

  I luoghi della tragedia 

L’antefatto

Nell’ultimo gelido inverno di guerra, i bombardamenti delle forze alleate su Milano e Provincia subirono un crescendo giornaliero. Dopo aver colpito gli insediamenti industriali, gli obiettivi divennero ferrovie, stazioni, ponti; ossia, le vie di collegamento.

Sul territorio era attiva una rete di informatori, legata al movimento partigiano, che comunicava possibili azioni di rappresaglia contro le truppe di occupazioni tedesche.

I partigiani della zona avevano notato uno spostamento giornaliero di alti ufficiali tedeschi dalla loro residenza serale di Cernobbio (dove era stato requisito l’hotel Villa d’Este, considerato luogo più sicuro da incursioni aeree notturne), in direzione Milano, utilizzando un convoglio speciale delle Ferrovie Nord, per raggiungere il loro comando, situato nell’albergo Touring, attiguo ai giardini pubblici di via Manin.

Venne perciò stabilito di colpirli proprio durante il viaggio.

Mappa catastale della zona della Vignetta all’epoca del fatto

La copertina del libro Neve Rossa: 1945 30 gennaio 1995 , edito in occasione  del cinquantesimo anniversario della strage, a cura di Giancarlo Tosi

Si trattava di informare il comando anglo-americano del punto e dell’ora in cui sarebbe transitato quel treno, che non aveva un orario fisso e viaggiava a vista. Gli altri convogli venivano fermati o parcheggiati su binari morti, riservando a questo la precedenza assoluta, a seconda delle convenienze. Per giorni e giorni, squadre di partigiani, pattugliando la linea Milano-Como, ne avevano studiato movimenti e abitudini, per far scattare l’esatto momento dell’agguato. Una spia infiltrata nelle formazioni partigiane avvertì le autorità tedesche del programmato assalto.  Così, il giorno convenuto, queste fecero fermare il convoglio militare alla stazione di Saronno, scambiandolo con un treno passeggeri proveniente da Laveno.

A sinistra, la stazione di Bollate negli anni Quaranta. A destra,  il tipo di carrozza  allora in circolazione sulle rete delle Ferrovie Nord

Il fatto

Tutto era stato predisposto nei minimi particolari, lo conferma il fatto che l’incursione fu effettuata nel punto e all’ora esatta in cui avrebbe dovuto transitare “quel treno”.

L’ignaro convoglio civile si fermò prima dell’abitato, all’altezza della Vignetta – via San Giulio –, perché il semaforo segnava rosso, come da ordine impartito dalla stazione di Bollate. Erano le 8 e 20 di martedì 30 gennaio 1945.

All’improvviso, quattro aerei apparvero nel cielo in bassa quota, il panico prese i viaggiatori che, terrorizzati, si precipitarono fuori dalle vetture, correndo all’impazzata alla ricerca di un rifugio nelle case vicine, ai margini della piccola radura coperta di neve. Oltre a sganciare quattro bombe che distrussero alcuni edifici a ridosso dei binari, i velivoli mitragliarono la folla degli sventurati in fuga nei campi coperti dalla neve, che iniziò a colorarsi di rosso per il sangue delle vittime.

Alla fine dell’incursione, le vittime saranno 88*, delle quali otto bollatesi, mentre i feriti furono un centinaio.

Le vittime del bombardamento ricomposte sul pavimento della chiesa di Madonna in Campagna

In queste immagini inedite, la partenza del corteo funebre  dalla chiesa di Madonna in Campagna (Archivio Origgi- Mesini)

Una folla ammutolita assiste al  passaggio delle bare sulla strada che attraversa i campi innevati della Madonna in Campagna – foto inedita (Archivio Origgi/Mesini)

Il passaggio del corteo funebre in piazza San Francesco (Archivio Origgi/Mesini)

Dopo la cerimonia funebre, officiata dal Prevosto Don Carlo Elli, il corteo si dirige verso il cimitero per la sepoltura delle vittime. (Archivio Origgi/Mesini)

Il passaggio del corteo in piazza del Municipio (Archivio Origgi/Mesini)

“Nel ricordo, esorcizzare la storia” – don Franco Fusetti

I racconti dei testimoni

Emilia Tenconi Nizzola

Sono le prime ore del mattino, la gente attende numerosa alla stazione, si vede il treno fermo là fuori: un lungo convoglio con in testa la fumante locomotiva all’altezza dell’Isola San Domenico. Ci si interroga perché non viene avanti, si sente un rombo di aerei; ci si chiede se sia suonato l’allarme (al suono dell’allarme ogni convoglio si fermava). Il rombo degli aerei si fa più distinto, non è il solito ricognitore (in gergo “Pippo”). La gente scappa. Intanto, suona veramente l’allarme: i fatidici cinque fischi a singhiozzo. Lo odono anche quelli sul treno e si buttano giù cercando riparo nelle case vicine, all’Isola San Domenico, nelle vie De Amicis e San Giulio, ma la corsa è rallentata dalla neve che è caduta in abbondanza nei giorni precedenti.

Tra i fuggitivi che cercano rifugio ci sono anch’io che indico, quale riparo, la mia casa, all’incrocio tra via Van Domenico e Via Garibaldi, che ha pure il rifugio antiaereo. Davanti al passaggio a livello sento un’accanita discussione; da una parte, il macchinista del treno, scortato da due soldati tedeschi, dall’altra, mio padre e un giovane della zona, Remo Merati.
Mi giunge qualche battuta: “noi apriamo le nostre case a tutti i passeggeri, ma portate indietro la locomotiva, ne va dell’incolumità di queste case e di questa gente”.

Risposta: “non è possibile, la locomotiva deve essere salvata ad ogni costo!“. Volano parole grosse, e penso: ”quei due farneticano, sfidare così i tedeschi è da temerari, potrebbero venire fucilati qui.” Vorrei andare a portar via mio padre e vorrei dire al Merati, “pensa a te” (sapevo che era un partigiano), ma non c’è tempo. Si odono gli aerei che si avvicinano, il sibilo della picchiata, il fragore delle mitragliatrici e incomincia l’inferno.

La discussione è troncata: tutti cercano riparo. La mia casa è piena di gente, la cantina pure. Quanto tempo dura il bombardamento? Non lo so, forse mezz’ora, forse di più o di meno. I minuti sembrano ore, noi siamo qui e non sappiamo che cosa sia avvenuto poco più in là. Ce ne accorgiamo appena cessa l’allarme. E allora ce ne rendiamo tristemente conto . Intanto, dalla vicina caserma arrivano i militari, le autorità civili, lo staff dei militi repubblichini e, quasi contemporaneamente, il prevosto don Carlo Elli con il suo giovane coadiutore don Giovanni Fusi. Si prendono rapide decisioni: i morti o quel che resta di loro sono portati nella chiesa di Madonna in Campagna, i feriti vengono dirottati al locale ospedale o in quelli del circondario con ogni mezzo possibile: carri agricoli, carretti a mano, barelle improvvisate.

Si organizzano i volontari, accanto ai soldati e alla milizia, c’è la popolazione che si prodiga e ci sono pure partigiani che escono dalla “macchia” e si uniscono ai soccorritori; oltre al Merati, ne ricordo altri due: Nino Carli e Piero Pulici; vivevano nascosti in oratorio e, nonostante ciò, erano accorsi a dare una mano nel drammatico momento.

Lavorarono fianco a fianco per tutta la giornata oppressori, oppressi e gente inerme e sbigottita: di fronte alla strage, il fine umanitario fa dimenticare rancori, odi e ideologie diverse.

Carla Tenconi Rossetti

Abitavo vicinissimo alla ferrovia, in via Ambrogio da Bollate. Mi trovavo in casa insieme a mio fratello Gaetano e a mia cugina Marta. Avevo 25 anni, Gaetano 18 e Marta 12. Sentendo il rumore del bombardamento e le urla delle persone, uscimmo di casa e aprimmo il cancello: un aereo passò proprio sulle nostre teste e dovemmo anche noi gettarci a terra, terrorizzati.

Passato il pericolo, aprimmo la nostra casa a quella povera gente .  Mi rendo conto di aver agito d’istinto, senza pensare a un possibile rischio, ma guidata solo dalla compassione per quelle persone sconosciute che invocavano aiuto.

In brevissimo tempo la casa si riempì di un gran numero di donne e uomini feriti in modo più o meno grave, ma non saprei dire quanti fossero: fra tutti mi è rimasta impressa una ragazza di diciassette anni che feci sdraiare sul mio letto e che purtroppo poco dopo morì.

Ricordo come tutte le stanze fossero piene di gente che continuava a lamentarsi e a chiedere aiuto. Poi arrivarono i primi volontari, tra loro anche mio padre Luigi, nel frattempo rientrato a casa, e che subito utilizzò un carro adibito al trasporto del legname per caricare i feriti più gravi e trasportarli in ospedale.

Anche mia madre, rincasata con grande spavento, si prodigò nei soccorsi. Arrivò anche don Giovanni Fusi che, dopo aver fatto ricomporre e sistemare i morti nella vicina chiesetta di Madonna in Campagna, portò parole di conforto e di sostegno ai numerosi feriti.

Ausilia Strada

Stavo uscendo per la spesa, ho sentito l’allarme e con tutta la premura sono corsa al negozio. Già lungo la strada avevo notato gli apparecchi che lanciavano bombe sulla ferrovia dove era fermo un treno . Mi sono rifugiata nel negozio della Cooperativa; dal grande rumore sembrava che tutto il palazzo crollasse. Ho preso un grande spavento anche perché avevo ancora a letto i bambini da soli. Appena cessato il bombardamento siamo corsi ognuno a casa propria. Lungo la strada non ho visto nessuno, solo il parroco che correva in bicicletta versa la ferrovia. Dopo, sono stata curiosa e ho voluto affacciarmi alla finestra. Si vedevano passare dei carretti che portavano i feriti verso l’ospedale. Dal vociare della gente, si sentiva che c’erano stati tanti morti. Ho visto la neve insanguinata e subito ho udito un signore che mi disse sorridente: “Signora ha visto? Mia moglie è morta, sa!” sembrava in preda alla felicità , aveva assistito a tutto perché era sul treno accanto alla moglie rimasta uccisa .Dallo spavento era stato colto da un raptus di follia.

Roberto Albertini

Quel mattino, non appena sentito l’allarme, mia mamma mi pregava di correre a casa di mia sorella Gemma, in quel momento sola con la bambina essendo suo marito già andato a Milano al lavoro. Mi precipitai da lei e ricordo con molta chiarezza che, appena salito in casa, presi in braccio la mia nipotina per scendere nel rifugio predisposto nello scantinato. Una volta sulle scale, sentendo il crepitare delle mitragliatrici e vedendo le pallottole che arrivavano giù nel cortile, fui costretto a fermarmi e a riparare dietro un muro maestro.
Ci rimasi pochi istanti e non appena il mitragliamento s’interruppe, corsi giù nel rifugio.

Cessato l’allarme, tornai verso casa, mi fermai in via Sartirana dove, in quella che era chiamata la corte del Lattaio, c’era il deposito dei carri e cavalli che effettuavano il servizio di corriere da e per Milano, servizio che faceva capo a mio padre, associato con Ercole Dusi. E lì cominciarono a giungere le notizie sul bombardamento del treno e tutti cominciarono a darsi da fare con ogni mezzo per intervenire a portare aiuto, accogliendo in casa persone ferite o che, illese, cercavano conforto e possibilità di mettersi in contatto con i loro cari.

Remo Merati

Ero in attesa di quel treno sul marciapiede della stazione. Improvvisamente una gragnola di colpi di mitragliatrice si abbatté sul convoglio.

Gli aerei, piccoli caccia – non so se inglesi o americani -, per tre volte almeno, dopo aver colpito i vagoni, ritornarono con rinnovata furia. L’azione sarà durata dieci, quindici minuti, ma in quell’inferno di colpi e di grida avevo perso la cognizione esatta del tempo, sembrava non dovessero più cessare.

La locomotiva nel frattempo si era fermata proprio poco dopo il passaggio a livello della Madonna in Campagna e i viaggiatori atterriti correvano verso le case vicine, per sfuggire all’incalzare degli aerei che li rincorrevano. Esplosero tre bombe; una sulla casa dei Parravicini, l’altra su quella dei Novati e la terza poco distante. Il destino ha voluto che i passeggeri rimasti sulle carrozze abbiano avuto più fortuna, un pò perché le lamiere delle stesse hanno offerto una certa protezione ed ancor più perché gli aerei, dopo la prima sventagliata di colpi, più che accanirsi ancora sul treno, avevano rincorso quanti cercavano scampo nella piccola radura verso le case.

Cessato il fuoco, siamo subito intervenuti per soccorrere i moltissimi feriti, per coprire i poveri corpi delle vittime e per raccogliere miseri brandelli sparsi in ogni dove.

Pierino Panza

Era suonato l’allarme quella mattina già da diverso tempo ed io ero sulla porta della stalla con un triste presagio. Ho visto il treno fermo all’altezza della Vignetta, dalla vicina stazione avevano dato l’alt al convoglio per evitare che potesse succedere, come ormai troppo spesso accadeva, che potessero verificarsi incursioni che avrebbero fatalmente potuto coinvolgere le persone ammassate sui marciapiedi.

All’improvviso ho notato spuntare due piccoli aerei e staccarsi da loro delle bocce che si ingrandivano man mano che si avvicinavano a terra.

Gli aerei venivano da sud. Molta gente era già scesa dal treno ed aveva cercato riparo nelle case vicine e nelle cantine. La fatalità ha voluto che una bomba, passando attraverso la piccola finestra della scantinato della casa Parravicini , esplodendo facesse crollare tutto il fabbricato addosso a quanti proprio in cantina  avevano cercato riparo .

La seconda delle bombe colpì la casa dei Novati, il giovane Luciano (15 anni), da poco rincasato da un turno di notte presso un Istituto Farmaceutico, fu colpito a morte proprio nel suo letto. La terza bomba cadde a circa 15 metri dalle case, formando un grosso cratere e dilaniando quanti si trovavano in quel punto. Quelli che erano scappati dal treno, attraversando il fontanile che costeggiava la ferrovia sul lato opposto, riuscirono a mettersi in salvo perché da quel lato non arrivavano proiettili.

Tra le vittime ho notato due militari e un superiore che accompagnavano due giovani ammanettati: abbiamo tagliato le manette con un grossa cesoia per permettere la sepoltura al cimitero. Qualche mese più tardi, la giovanissima moglie di uno dei due ragazzi è venuta a Bollate per riportare a casa le spoglie del marito, da lei abbiamo saputo che vivevano in Val d’Ossola.

Il nonno era Fabbriciere della Madonna in Campagna e così mi sono trovato a custodire decine di cadaveri, adagiati uno accanto all’altro, tanto da coprire tutto lo spazio esistente.

Giancarlo Tosi – promotore delle iniziative a suffragio e coordinatore del volume “Neve Rossa”, edito in occasione del cinquantenario della strage e dal quale sono state tratte le testimonianze citate. 

Mi trovavo quella mattina con mio fratello sul marciapiede della vecchia stazione in attesa di “quel treno” che avrebbe dovuto portarci al San Carlo, dove frequentavano la media.

Quel treno non arrivò mai a destinazione. Il crepitìo delle mitragliatrici determinò un fuggi fuggi generale.

Tornai a casa ma la curiosità di noi bambini era forte; tuttavia la prudenza e la paura consigliavano di non uscire.

Solo nel tardo pomeriggio, di nascosto, giunsi sul luogo della tragedia.

Il terreno confinante con la ferrovia era coperto da uno strato di neve calpestata e macchiata da tanto sangue. Riuscii a vedere dei fagotti annodati con lenzuola completamente rosse, nei quali erano stati pietosamente raccolti poveri resti umani. Lungo il sentiero si allontanavano carretti, addirittura tricicli, che trasportavano cadaveri .

Queste immagini hanno profondamente ferito il mio giovane cuore e colpito la mia mente da renderle incancellabili nel tempo. Così, mi sono sentito in dovere di tenere vivo il ricordo di queste vittime inermi, attraverso la ricostruzione storica di quanto accaduto e di rendere loro doveroso omaggio ad ogni anniversario della tragedia.

*Dai documenti dell’archivio comunale, il registro atti di morte del 1945 riporta il numero di 87 vittime del bombardamento aereo nemico.

Con il decesso di un ferito, saliranno a 88 qualche giorno dopo.

Giuseppina

Estratto dell’ adattamento teatrale del racconto dedicato  alla strage della Vignetta, messo in scena dalla compagnia dialettale “i amis del Giuedi”

Quando Giuseppina, avvolta nel suo cappottino e tutta infreddolita, arrivò lungo la via Pier della Francesca davanti alla stazione della Bullona a Milano, non si meravigliò di vedere tutta quella gente. L’orologio sopra l’ingresso che, grazie al fatto che fosse illuminato, si riusciva ad intravedere nella nebbia, segnava le ventidue. Le ventidue di lunedì 30 gennaio 1945.

Perfino nella vecchia sartoria di via Paolo Sarpi, dove lei lavorava come pantalonaia,

era arrivata notizia di un qualche cosa che era successo lungo la ferrovia nord,

proprio vicino a Bollate.
C’era chi parlava del deragliamento di un treno, chi invece sosteneva che fosse stata bombardata una casa.

In ogni caso, la censura tendeva a tenere nascoste certe notizie, per cui si sapeva ben poco.

Anche radio e giornali serali, erano usciti con solo un minimo accenno, praticamente senza spiegare nulla di preciso.

La gente si accalcava sulla pensilina e tutti facevano gruppo intorno al Capostazione.

Giuseppina si avvicinò facendosi largo fra la folla.

Malgrado i suoi 23 anni, pur essendo bassa di statura, era molto risoluta.

Fra spintoni e sorrisi, arrivò vicino al ferroviere.

Ve l’ho già detto – urlava il Capostazione – sembra che ci sia stato un incidente stamattina vicino a Bollate.

Ancora?? Signorina, è tutto quello che so…di più non posso dire.

Comunque, fra un po duaria rivà un trenu da Milan…sì, un binario è stato liberato…

…sì, tranquilli, farà tutte le fermate fino a Saronno…lo so, che è tardi, ma l’è minga culpa mia.

Si udì un fischio provenire dall’interno della galleria.

La locomotiva, entrò in stazione preceduta dal vapore emesso per frenare il convoglio.
Non appena si fermò, ci fu un vero e proprio assalto.

Giuseppina venne spintonata e rischiò anche di cadere.

Il convoglio era strapieno, ma nemmeno più di tanto.

Tanta gente, sapendo che i treni erano bloccati, quel lunedì 30 gennaio del 1945,

aveva deciso di passare la notte da amici o parenti.

Addirittura, molti decisero di restare a dormire in fabbrica.

Anche a lei, la signora, aveva detto che se voleva poteva stare a dormire da loro.

Sarebbe rimasta lì volentieri, ma siccome la signora non era riuscita a comunicare che non sarebbe rincasata perché al solito numero telefonico da chiamare in parrocchia non rispondeva nessuno, era impaziente di arrivare a casa nella speranza che i suoi stessero tutti bene.
Finalmente, quasi a mezzanotte, il convoglio arrivò a Bollate.
Le poche persone che scesero, svanirono subito nella nebbia, che man mano che si allontanavano da Milano, si faceva sempre più fitta, tanto da dover dire veramente

che “se pudeva tajala cunt el cultèll” .
Giuseppina, una volta che il treno fu ripartito allontanandosi in direzione di Castellazzo, si incamminò sul sentiero che costeggiava i binari, verso Madonna in Campagna.
Quando arrivò al casello, vide che le sbarre erano alzate e notò che la luce all’interno della casetta del casellante era spenta. Evidentemente quello passato era l’ultimo treno.
Orientandosi nella nebbia, grazie al fatto che conosceva il tragitto a memoria, arrivò nei pressi della chiesetta di Madonna in Campagna.
Una luce flebile, sotto il portico, cercava di farsi largo nella nebbia, ma senza riuscirci.
Alla ragazza, parve di intravvedere, sotto il portico, un gruppo di persone.

La nebbia e la scarsa illuminazione, le impedivano di poter riconoscere qualcuno.
Decise allora di avvicinarsi per chiedere notizie sull’accaduto.
Le persone rimanevano immobili, ma ad un certo punto, quando fu abbastanza vicino da riuscire quasi a distinguere le figure, le si fecero incontro tre ragazzini vocianti.

Buonasera signorina Radice, Disse il più grandicello dei tre.
Sono Luciano, Luciano Novati, si ricorda? L’anno scorso, mi ha fatto i miei primi calzoni lunghi. Sono questi, mi vanno bene ancora.

Il più piccolo dei tre, piagnucolava confortato dall’altro ragazzino.

Dai Virginio, disse Luciano, te l’ho gemò dì, la tua mama l’è ‘ndada a cà un mument,

ma fra un po’, la torna indree.Te ghe de vèg un po’ de pasiensa. Dai, va dree nò a frignà.

Ma cosa ci fate in giro a mezzanotte voi tre? Chiese Giuseppina.
Stiamo aspettando che tornino i nostri genitori. Anzi, nel frattempo, se permette, la accompagniamo noi a casa, non lascerò certo che una signorina, vada in giro di notte senza un’adeguata scorta. Vero Dino?

Certamente Luciano – rispose Dino – te ghet propi resun, la scurtarèm nunc fina a cà. Andèm Virginio, andèm a cumpagnà a cà la signorina.
Il gruppetto si incamminò in direzione della cascina delle Monache, mentre Giuseppina si voltava a guardare incuriosita le persone immobili davanti alla chiesa che man mano sparivano nella nebbia.
Ma non avete freddo a stare in giro a quest’ora? Solo con un maglioncino e il piccolino con il pigiama? Chiese.

No Signorina Radice, non abbiamo freddo, per niente. Stiamo benone. Vera bagai ?

Si si. Risposero gli altri due.

Anzi,- proseguì il ragazzo atteggiandosi ad adulto –  se permette, ci presentiamo. Allora, io sono il Novati Luciano…

Si, a te ti conosco.

Lui, è il Pallavicini Dino, e il frignino, è il Carimati Virginio.

Molto piacere, io sono Giuseppina Radice. Ma dopo, mi promettete che andrete a casa?
Si si, Signorina, certo che ci andremo…e non ci muoveremo più.
Ecco bravi, rispose la ragazza.

Nel frattempo erano arrivati davanti al cancello della casetta dove abitava Giuseppina.

Bene, io sono arrivata. Disse la ragazza. Vi ringrazio per avermi accompagnata.
Quando entrò in casa fu accolta dai saluti della mamma e di Germana, la sorella maggiore, mentre Mariuccia, la più piccola, le si era letteralmente catapultata addosso in un caloroso abbraccio.

Pensavum pu che te sariet riesida a vegnì a cà stanott. Disse la mamma.
Sun riesida a ciapà l’unic trenu. E l’è parti che eren gemò i vundes ur. Ma a la fin, se po savè se gh’è sucess?

Cumè, tel se nò? Chiese la sorella maggiore.

No, so nagott. La gent la parlava d’un trenu deragliaa…

L’è nò deraglià. Rispose la mamma. Stamatina, in vers i vott e mezza, i ingles o i american, han bumbardà un trenu visin a la vignetta e han tra giò anca di cà visin a la feruvia. Un disaster.

Oh madona santa. Rispose Giuseppina con apprensione. El trenu dopu quèl che ho ciapà mi per andà a laurà. Ma gh’è sta di mort?

Gh’è mort un sac de gent. E i han mis tucc in de la gesèta…

E pensa che sètt, eren de Bulaa.
E purtroppo, intervenne la sorella minore, tre di questi, avevano circa la mia età.

 Vittime Bollatesi

Luciano Novati anni 16

Bernardino Pallavicini  anni 12

Virginio Carimati  anni 11

Tullio Bertolani

Giuseppa Banfi

Marta Maria Luini

Angelo Rossini

Angelo Albani –regista della compagnia teatrale dialettale “i amis del giuedi “

LA MEMORIA DA CONSERVARE

Mio padre aveva compiuto 18 anni il giorno prima della strage  e finché è rimasto in vita non è mai riuscito a dimenticare quanto accaduto .Il nonno era fabbriciere (custode) della Madonna in Campagna e dopo i solenni funerali si ricordava che il pavimento ,fatto di mattoni, è rimasto intriso di sangue per molto tempo. Il prevosto don Carlo Elli scrive nel Liber Chronicus (registro parrocchiale)sotto il 30 gennaio  1945 : “sul luogo del disastro fu poi eretta una Cappelletta dedicata alla Madonna del Carmine”.

La Cappelletta si trovava in via san Giulio, una traversa di via de Amicis, era ben visibile anche da chi passava con il treno diretto o a Milano o verso Saronno, ospitava la statua della Madonna del Carmine che, secondo alcune testimonianze, era di dimensioni simili a quella della statua della Madonna di Lourdes posta in  Madonna in Campagna. Ai piedi del simulacro fu eretta una lapide dove erano incisi i  nomi dei caduti nel bombardamento.

Il 16 luglio di ogni anno, nella ricorrenza della Madonna del Carmine, il prevosto don Carlo Elli  si recava sul posto la sera ,assieme a numerosi fedeli, non solo bollatesi ma  anche i parenti delle vittime di altri paesi, per la recita del  santo rosario, tradizione continuata anche con l’avvento del prevosto don Giuseppe Sala.  Purtroppo la Cappelletta venne rimossa nel 1968 , in seguito ai lavori di costruzione di una abitazione, con la promessa del  proprietario del terreno di ricollocarla una volta ultimato il cantiere. Purtroppo la promessa non è stata rispettata  Questo ha suscitato in me  rammarico e dispiacere perché la memoria di quanto avvenuto in quel luogo rischia di essere dimenticata per sempre

Cristiana Panza

A sinistra, la cappelletta costruita dopo il bombardamento. La foto è del 1945. Si leggono i nomi delle vittime di Bollate. A destra, la lapide posta sulla parete della chiesa di Madonna in Campagna a ricordo delle vittime bollatesi della tragedia

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari ,la fotografia, la storia locale e lo  sport   sono sempre stati al centro dei suoi interessi. .Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni  Bollate 100 anni di immagini (1978) , Una storia su due ruote (1989) Il Santuario della Fametta (2010) La Fabbrica dimenticata (2010) Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014) . Ha curato anche diverse mostre fotografiche fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015) La Fabbrica dimenticata (2010) I 40 anni di Radio ABC (1977). E’ tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.

Giordano Minora