LO CHIAMAVANO MACINATO

“el mangiava i banann cunt la pell”

Gruppo di solesi in posa dopo la classica “paciada” in una trattoria di Cascina del Sole 

Storia di vita nella varia umanità di paese, tratta dallo Stato delle anime di Cascina del sole: Persone notevoli

“..ahi! fallace memoria che di rosa pingi pur anco le tristi giovenili vicissitudini ..”  

(Ugo Foscolo)

Non c’era persona in paese, maschio o femmina, che non avesse, oltre a nome e cognome ufficiali, un soprannome, bello o mica tanto, da portare fino alla tomba; ereditato dai genitori, rifilato all’atto di nascita o poco dopo, guadagnato sul campo, cioè vivendo, per una caratteristica psicosomatica, per fortuito accidente o per una qualche memorabile impresa.

“Macinato” era chiamato da tutti un Angelo C., arrivato infante a Cascina del Sole nel primo dopoguerra con tutta la famiglia: una tribù numerosa e “strascenta”, dalla campagna bergamasca di Romano di Lombardia o giù di lì, dove la pellagra era praticamente endemica. Più miserabili ancora dei poveri contadini locali.

Si installarono in due locali muffolenti e decrepiti, in fondo alla “cûrt del bagàtt”, poi dei Nichetti, (pur essi immigrati ma dalla miseria delle campagne cremonesi), lasciati liberi da una famiglia scappata a Milano, dove aveva trovato lavoro e sistemazione.

Crescendo il bambino dimostrò di essere fatto a modo suo, nel senso che era un po’ tardo a capire; alcune cose anzi non voleva proprio capirle. Era anche un po’ stortignaccolo. Ma, ai tempi, creature così fatte non mancavano nelle nostre corti. Scarsità di cibo, mancanza di igiene, madri gravide oberate di lavoro fino al momento del parto, insomma le possibili spiegazioni c’erano tutte. 

Degli innocentini malfatti, che sovente il Signore chiamava subito in cielo: “mej inscì, che ‘l s’é risparmiàa questa valle di lacrime”, ci si consolava.

Divertente foto di gruppo con coniglio – Anni Quaranta

La Chiesa parrocchiale di Cascina del Sole costruita negli anni Trenta

La Corte dei Ghioni negli anni Cinquanta

Contadine impegnate nel lavoro di semina nei campi di Cascina del Sole – Anni Trenta

Ma qualcuno di quegli sfortunelli s’ostinava a restare qua e crescendo trovava nel piccolo mondo arcaico delle corti la sua collocazione. Per accudire le bestie in stalla o badare alle galline o seguire il nonno nell’orto e nei campi, prendere l’acqua dalla tromba, portare la legna, a qualcosina risultavano utili anche loro. Non tutti e non sempre. Il Macinato, per esempio, guai a farlo lavorare: dopo cinque minuti di vanga, zappa o piccone buttava là l’attrezzo e neanche a “svirciate” lo facevi tornare a faticare. “Ciàmel scemu!”.

I coetanei “normali” li accettavano, questi malcapitati, così com’erano con la loro specificità, magari scherzandoci sopra, senza farci troppo caso, proprio come loro accettavano i disagi fisici derivati dai geloni, il brontolio dello stomaco mai sazio, i risipola della cute, i “pioeucc”(pidocchi), i “pures”( pulci), i vérem, le percosse dei grandi, quei tanti fastidi che la vita elargiva a piene mani.

E con gli altri bambini della corte si provavano a giocare a nascondino, bandiera, “tagalé”(prendersi), bugètt (boccette), balùn, (pallone) scarlighéra (scivolare sul ghiaccio), rella, (lippa), piombini, vagabondare nei campi a rubacchiare frutta e verdura, fumare le barbe delle pannocchie, fare d’estate il bagno nelle canalette.

Bisognava stare attenti a non dar loro il tirasassi, perché in genere, poco coscienti della pericolosità dell’arma, non avevano rispetto per alcun bersaglio: passeri, rondini, gatti, vasi, finestre, persone che fossero. Una volta giunti all’adolescenza ci mettevano poi un amen a prendere i vizi dai grandi: il vino, il fumo, le parolacce, le donne. Allora sì che era un problema, che non si sapeva se ridere o bastonarli a sangue.

“Carnevalata” di giovani coscritti, a bordo di un carro agricolo, dopo la visita di leva.

E l’Angelo, per quanto io ricordi, quei piacevoli vizi li assunse presto. In particolare quello del fumo. Siccome non aveva soldi, e chi li aveva allora?, ciondolava nelle tre osterie del paese a raccattare i “mucc”(mozziconi) con i quali farsi un improbabile calumet. Di norma, privo di pudore com’era, semplicemente chiedeva e assieme alla sigaretta pietiva anche un sorso di vino. Arrivava perfino a svuotare il bicchiere che qualche avventore foresto, ignaro delle abitudini locali, lasciava sul tavolo per un’ impellente necessità o per tirare la boccia. Compiuto il misfatto, sul suo viso fioriva il ghigno del barabbino che te l’aveva fatta ancora una volta. La stessa espressione beffarda della foto sulla lastra dell’ossario in cui riposa il sonno eterno: loculo 232  piano interrato 086 al cimitero cittadino. 

S’incazzavano di brutto i titolari del bicchiere se lo beccavano, ma poi, misuratene le fattezze ed avvertiti dalle espressioni giustificative degli indigeni, capivano di lasciar perdere. S’incazzavano di brutto anche il povero padre e gli zii, e date gliene avevano date da spellarsi le mani, ma inutilmente. La madre, rassegnata, si macerava nella disperazione.

Da questa sua fastidiosa e tenace tendenza a chiedere è stato battezzato con il soprannome di  “Macinato”, in ricordo dell’odioso e non ancora dimenticato balzello che aveva oppresso i contadini decenni prima. La povera Rosalia diceva che quel nomignolo gli era stato dato dal vecchio De Ponti, vicino di corte, nella cui cucina il bimbo, mai sazio, compariva spesso, non invitato, a condividere il misero pranzo. Si diceva anche che non fosse nato così, ma lo fosse diventato in seguito ad una caduta dal fienile. Accidente che all’epoca malcapitava di frequente alla ragazzaglia delle corti.

La trattoria Asnaghi, luogo di socialità per i solesi, in una foto degli anni Trenta

 Avventori del Circolo Solese; aveva sede in via Coni Zugna. Primi anni Cinquanta

Al compimento dei 18 anni come tutti i coetanei ricevette la cartolina del militare.

Assieme agli altri coscritti si presentò al distretto di Monza, non idoneo, e, bardato di cappellino e foulard tricolore d’ordinanza, condivise le tradizionali “carnevalate” in giro per le vie e le corti, con relativa ciucca e pacciada. Non se ne ha memoria ufficiale, però, secondo usanza, affrontarono anche la prova della virilità in una delle tante case “chiuse” di Milano. Comunque quegli scampoli di tricolore l’Angelo continuò ad indossarli per mesi fino al logorio ed oltre. In questo confermava una sua passione, manifestata già anni prima in occasione di non saprei quale manifestazione dei giovani balilla, quando sottrasse la bandiera al coetaneo titolato e s’involò felice per le corti. Per fargliela restituire, non riuscendoci con le buone, lo suonarono di brutto. 

Da quella volta gli fu ufficiosamente concesso l’onore di portare, nelle diverse e numerose manifestazioni, il tricolore della “Combattenti e Reduci” ed indistintamente pure di altre associazioni, estraneo per conto proprio a possibili implicanze storiche o politiche. Lui si beava dell’onore di essere il portabandiera, in particolare del rinfresco conclusivo.

Degli svariati episodi che caratterizzano la sua biografia, uno veniva di frequente ricordato da chi l’aveva conosciuto.

I testimoni diretti, nomi e soprannomi, un viso ed un’impressione, anch’essi l’hanno da tempo raggiunto in via Repubblica e con loro i contemporanei che la narrazione l’avevano raccolta fresca fresca: perciò scriverò quanto a me arrivò a suo tempo. 

Il “Macinato”, orgoglioso nella sua funzione di portabandiera

Corteo con bandiere e stendardi  percorre le vie di Cascina del Sole – fine anni Quaranta 

Passava dunque lungo la statale Varesina, si era nel ‘48, (la strada aveva ancora il ghiaietto), il Giro d’Italia, tappa finale con arrivo a Milano che suggellerà il trionfo di Fiorenzo Magni. (Tanto per capire il seguito, ancora nei primi anni Cinquanta alla stazione Centrale sostavano degli ambulanti che, cassetta a tracolla, offrivano ai viaggiatori banane a 5 lire l’una. E a noi, gente di paese, di quel frutto esotico ci rimane inesausta voglia ancora adesso).Una gran bella festa, il passaggio della corsa rosa. Tutti i maschi del paese, sportivi o meno, giovani adulti ed anche più, si erano organizzati per raggiungere lo stradone ed assistere al passaggio dei corridori, previsto verso le 16 o giù di lì. Era domenica e dunque problemi di orario non ce n’erano. Quella settimana la “preturella”, cioè la moglie del giornalaio, conosciuto come il “pretore”, aveva decuplicato le vendite della Gazzetta: da una copia, quella per il barbiere, a dieci: erano tempi che il ciclismo, praticato e parlato, suscitava grandi passioni. E poi come si poteva mancare un tale spettacolo per di più gratuito. Così, subito dopo il desinare, il Marietto, caricatosi in canna il “Macinato”, che di bici non ne possedeva, e comunque mai imparò ad andarci, assieme al Luigi, il Dante, l’Ambrogio e tanti altri, erano partiti da Cascina del Sole direzione Ospiate.

Il gregario in fuga spinge a fondo passando tra due ali di folla. Giro d’Italia 1948

Si imbatterono in un pieno della madonna che non ci si poteva avvicinare ai bordi dello stradone. Si portarono allora più su verso la Torretta e lì, dopo la cascina Scessa, presso una siepe, all’ombra di una robinia scampata alla guerra, sulla costa di una canaletta, si erano appostati. 

Finalmente verso le tre comincia ad arrivare una Guzzi della stradale; poi altre moto di suiveur assortiti; seguiti da una  squadra di dilettanti variamente vestiti che non si capiva bene cosa c’entrassero; poi camioncini ed auto con la réclame di prodotti vari. Quindi una camionetta con i cartelli di inizio corsa; altre auto e furgoni ufficiali delle diverse squadre, auto e moto della stradale a sirene spiegate e, finalmente, annunciata dalle urla d’incitamento della folla, una coppia di corridori in fuga. Un paio di minuti dopo ecco un gruppetto di inseguitori con l’auto della giuria alle calcagna. Proprio all’altezza dei nostri, uno dei corridori si libera della sacca di rifornimento, che ancora reggeva a tracolla, lanciandola verso la siepe ai piedi del Marietto. Che fortuna !

La raccoglie svelto, ci guarda dentro: due banane” saccagnate” e flosce e un formaggino derelitto. “Té!, ciappa lì”, dice al Macinato passandogliela. C’è da seguire la corsa: sta arrivando il gruppo con tutti i campioni; della sacchetta si occuperanno più tardi. 

Il passaggio della camionetta del fine corsa, con la gente che comincia ad invadere lo stradone, segna la conclusione della festa ciclistica. 

“El sacchett?.”, chiedono allora voltandosi interrogativi verso il Macinato. Vuoto, e per terra l’incarto del formaggino; il sorriso barabba sul suo volto. “E i banann?..”.Il ghigno si allarga sul viso dell’indiziato. “Eren bûnn?..”, chiede l’Ambrogio. Sì si, fa quello muovendo il capo su e giù, aggiungendo: “però pensavi mej; ho fàa fadiga a mandaj giò…”.

Al che il Dante, notato che a terra bucce di banana nisba, neanche un pezzetto, replicò:“Ma.. i’ ha mangiàa cun tutta la pell!”.

EUGENIO GHIONI e GIUSEPPE TIENGO

Gli Smemorati di Cascina del Sole

Crediti : Archivio Famiglia Ghioni  – Archivio Giordano Minora 

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari, la fotografia, la storia locale e lo  sport sono sempre stati al centro dei suoi interessi. Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni Bollate 100 anni di immagini (1978), Una storia su due ruote (1989), Il Santuario della Fametta (2010), La Fabbrica dimenticata (2010), Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014). Ha curato anche diverse mostre fotografiche, fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015), La Fabbrica dimenticata (2010), I 40 anni di Radio ABC (1977). È tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.
Giordano Minora