Ma qualcuno di quegli sfortunelli s’ostinava a restare qua e crescendo trovava nel piccolo mondo arcaico delle corti la sua collocazione. Per accudire le bestie in stalla o badare alle galline o seguire il nonno nell’orto e nei campi, prendere l’acqua dalla tromba, portare la legna, a qualcosina risultavano utili anche loro. Non tutti e non sempre. Il Macinato, per esempio, guai a farlo lavorare: dopo cinque minuti di vanga, zappa o piccone buttava là l’attrezzo e neanche a “svirciate” lo facevi tornare a faticare. “Ciàmel scemu!”.
I coetanei “normali” li accettavano, questi malcapitati, così com’erano con la loro specificità, magari scherzandoci sopra, senza farci troppo caso, proprio come loro accettavano i disagi fisici derivati dai geloni, il brontolio dello stomaco mai sazio, i risipola della cute, i “pioeucc”(pidocchi), i “pures”( pulci), i vérem, le percosse dei grandi, quei tanti fastidi che la vita elargiva a piene mani.
E con gli altri bambini della corte si provavano a giocare a nascondino, bandiera, “tagalé”(prendersi), bugètt (boccette), balùn, (pallone) scarlighéra (scivolare sul ghiaccio), rella, (lippa), piombini, vagabondare nei campi a rubacchiare frutta e verdura, fumare le barbe delle pannocchie, fare d’estate il bagno nelle canalette.
Bisognava stare attenti a non dar loro il tirasassi, perché in genere, poco coscienti della pericolosità dell’arma, non avevano rispetto per alcun bersaglio: passeri, rondini, gatti, vasi, finestre, persone che fossero. Una volta giunti all’adolescenza ci mettevano poi un amen a prendere i vizi dai grandi: il vino, il fumo, le parolacce, le donne. Allora sì che era un problema, che non si sapeva se ridere o bastonarli a sangue.