L’Apocalisse di Karibian

Un’avventura artistica

Ardasces Karibian ritratto nel suo studio bollatese dall’amico pittore e fotografo Vitaliano Galimberti – foto © Vitaliano Galimberti

“Non c’è dolore più grande della perdita della terra natia”

Euripide

In un caldo pomeriggio di tarda primavera stava leggendo il romanzo di Victor Hugo i Miserabili, si imbatté nell’episodio di Gavroche con i bambini e improvvisamente si interruppe, gettò il libro e con rabbia esclamò:“Io sono stato Gavroche in Mesopotamia, so che cosa vuol dire”. In questo accadimento letterario Ardasces Karibian aveva rivisto un flashback di vita vissuta che ha tragicamente interessato lui e tutta la sua famiglia, genitori, fratelli e parenti. I Karibian, originari dell’Armenia, furono deportati nei deserti della Siria e della Mesopotamia a seguito del genocidio che ha coinvolto la popolazione di nazionalità armena, perpetrato a partire dal 1915 dall’impero Ottomano e che ha la sua data simbolo il 24 aprile. Il piccolo Ardasces, 9 anni (era nato il 4 aprile del 1906 nel villaggio di montagna di Kurtbelen, in provincia di Izmit, non lontano da Istanbul), riuscì miracolosamente a scampare al massacro dei “Giovani Turchi”, un’autentica carneficina con centinaia di migliaia di morti, tra cui l’intera sua famiglia che vide sterminata a Deir- es- Zor davanti ai suoi occhi ancora innocenti.

IL “GRANDE MALE” ARMENO

Una ferita ancora aperta, perché su di esso, per numerosi anni, è stato fatto calare un plumbeo muro di silenzio, di rimozione e negazionismo, tanto che sono in molti, tra gli studiosi odierni, a definirlo un “genocidio infinito”.

Con quella traumatica immagine nel cuore e nella mente, comincia a vagabondare senza meta e senza obiettivi ”finché un giorno, ad Aleppo in Siria, vedendo un ufficiale tedesco che ritraeva a matita il panorama di una strada, di colpo mi svegliai dal mio tormento: avevo finalmente trovato quello che sarebbe stato lo scopo della mia vita, la pittura”. Nel 1918 Ardasces è rinchiuso in un orfanotrofio a Istanbul, poi, nel 1924, insieme ad altri 90 ragazzi pressoché coetanei, è affidato alle cure dei padri mechitaristi presso il monastero armeno di isola San Lazzaro a Venezia. Qualche anno più tardi, il trasferimento a Milano.

“Nessuna terra è luogo d’esilio, ma una seconda patria”

Seneca

Qui inizia una nuova vita: lavora nel campo delle arti grafiche, alternando quest’attività con la frequentazione dei corsi all’Accademia di Brera. Nel 1935 viene assunto come cromista specializzato nel reparto fotoincisione del Corriere della Sera, dove rimane fino al 1943. Nel contempo prosegue negli studi pittorici, ottenendo il diploma nel 1947. Allievo di maestri come Funi, Carpi, Vittorini, Salvadori e Reggiani, è stato un profondo conoscitore della cultura impressionista francese alla quale si è ispirato spesso nelle sue molteplici opere.

Centinaia di quadri a olio, tempera, chine e bozzetti che ha conservato gelosamente nella cantina della sua abitazione bollatese, una villetta laboratorio in via Arrigo Boito, mostrandoli solo raramente agli amici che li sapevano apprezzare: “sono il frutto di tanti anni di lavoro, sono il mio patrimonio, preferisco tenerli per me piuttosto che svenderli o darli in pasto a qualche mercante poco onesto “, sentenziò in un’ intervista rilasciata al Corriere della Sera nell’aprile del 1984. Nel suo rifiuto alla mercificazione, alla ritrosia alle luci della ribalta, si è trovato in sintonia con la discrezione di un altro pittore bollatese, Vitaliano Galimberti. Ricorda in proposito Piera Muzzi: “veniva spesso nello studio di Castellazzo di mio marito per scambiare pareri e opinioni artistiche, senza mai accennare a opportunità di recensioni, mostre o cataloghi, ma solo a disquisire di arte. Addirittura, a volte, lo si poteva vedere dipingere solitario all’aperto, sull’esempio di un episodio di gioventù che lo aveva segnato profondamente e ne aveva fatto scattare la passione per la pittura”.

Ritratto e foto dello studio di Karibian scattate dal pittore bollatese Vitaliano Galimberti che era anche un valente fotografo – Foto © Vitaliano Galimberti

Articolo da Corriere della Sera 16/4/1984

Articolo su Karibian apparso su un quotidiano

Copertina di una rivista della comunità armena italiana

L’approdo a Bollate di Karibian avviene sul finire degli anni Venti, ospite per diverso tempo nella abitazione di Cesira Sardo in via Caduti Bollatesi. Poi l’incontro e le nozze con Antonia, per tutti Tonina, e il nuovo domicilio in zona Traversagna. Basso di statura, occhiali dalla montatura spessa, l’immancabile basco in testa e indosso l’impermeabile marron stazzonato, sempre in bicicletta, più alta di lui tanto da arrivare a fatica ai pedali, lo si notava girare così per le vie cittadine.

Karibian in studio con la moglie Antonia

Ardasces Karibian

“Carattere austero, burbero nei rapporti, temperamento probabilmente dovuto ai drammi di gioventù, era un frequentatore assiduo della mia macelleria -racconta Massimo Nizzola- di pochissime parole, in alcune circostanze però si mostrava più loquace, improvvisamente estroverso, seppur sempre dai modi spicci.” A confermare la sua riservatezza, che poteva sfociare in talune situazioni in una sorta di disdegno, è la descrizione che ne fa Eva Tea, docente di storia dell’arte all’Accademia di Brera e all’Università Cattolica di Milano, in uno scritto che fungeva da presentazione ad una retrospettiva a lui dedicata dalla Unione Culturale Armena d’Italia all’inizio del 1980. “Tutto chiuso com’è dentro la sua coscienza rigida di artista che, giudicando gli altri, ha imparato ad essere severo con se stesso. Da diciotto anni vive in campagna, nella pura e modesta casa di una maestra di scuola, che divide maternamente le su ansie e le sue certezze. La musica e i ragionamenti della saggezza cristiana sono il conforto di entrambi. Nel piccolo giardino, che una siepe divide da una strada, crescono le verdure e gli astri d’autunno. Da quell’angolo di terra la vita cittadina appare infinitamente lontana e soltanto la radio porta qualche concetto strappato al cuore insonne degli uomini”.

Alcune locandine delle mostre di Karibian

Silenzio, pensieri, colori e libri sono stati il conforto della sua umana avventura. Oltre a tavolozza e pennelli, Karibian si immergeva infatti nella biblioteca domestica ricca di testi dedicati ai maestri della pittura:“conservo volumi italiani e stranieri dei più grandi nomi dell’arte, ho tutto su Matisse, Chagall, Lautrec e Van Gogh, però non mancano Raffaello e Leonardo. Questi sono i nomi che possono veramente meritarsi il titolo di artisti”, chiosò in conclusione dell’intervista al Corriere. Una personalità tormentata la sua, vissuta nell’ombra, frutto di una infanzia contrassegnata da traumi e dolorose sopportazioni, da un vagabondare da un luogo all’altro, che ha trovato nell’arte la ragione di vita, una severità d’animo dentro la quale, sottolinea ancora la Tea,” I libri gli fanno compagnia. I pensieri sono i suoi amici. I grandi del passato sono i suoi consiglieri. E per le ore dubbie come per le liete, per i momenti di abbandono come per quelli di maggior sforzo e della più alta ricerca c’è Dio”. Non per niente, l’opera che lo ha visto impegnato per più di trent’anni è stata una tela di otto metri quadrati raffigurante una scena de l’Apocalisse. Quasi un presagio del suo destino.

Paolo Nizzola (hanno collaborato: Nazzareno Marcon e Maria Grazia Riboldi)

Ardasces Karibian: una memoria artistica e umana da restituire. Hanno scritto di lui:

Questa mostra, o raccolta di mazzi pregni e splendenti di fiori, rappresenta il punto di conclusione d’una lunga carriera di pittore, trascorsa in un silenzio duro, consapevole, a volte dolente, sempre tenace e superbo di sé; un silenzio in cui la difficoltà della vita e di reggere, in quella vita, il proprio destino, ha prestato, com’era giusto, più d’una volta i toni dell’alterigia e dello sdegno.

Che, dietro la vocazione di Karibian, irraggi, possente e folle, il sole di Van Gogh è cosa da riconoscere subito, ma altrettanto subito è da riconoscere la particolare inclinazione che, nella sua opera, quei raggi sono andati via, via, prendendo un’inclinazione che, giusto la sua nascita, sembrerebbe di poter definire gloriosamente ‘orientale’. Insomma, ciò che in Van Gogh e in tanti suoi ‘nipoti’ d’Europa era tensione disperata, è diventato in questo suo ‘erede’ d’Armenia concordia, libero abbandono verso l’esclamativa bellezza d’una natura da cantare in eterno e in eterno osannare. Ecco una lezione di pittura: e di pittura ritrovata per forza di passione e d’amore.

Giovanni Testori, presentando la mostra retrospettiva allestita alla Casa Armena di Milano – 19 gennaio – 13 febbraio 1980

La cultura occidentale è entrata in lui attraverso il filtro della riflessione e perciò nulla che non sia vitale ne è rimasto. Venuto tardi nella vita artistica, dopo anni di romanzeschi travagli ed aspri sacrifici, ha potuto e saputo compiere rapidamente una selezione di ciò che è vivo e di ciò che è morto nel pensiero moderno. La prontezza del retto giudizio è la qualità dominante. Egli riflette la vita come uno specchio che pensa. Tale è l’uomo. L’artista rispecchia l’uomo. L’istinto stilizzatore orientale e la ricca vita interiore lo hanno tenuto lontano dal verismo che, se mai, è stato in lui punto di partenza e non di arrivo, mentre a piegarsi verso l’astrattismo lo ha trattenuto la sincera umanità, alimentata da tanta riflessione e da tanto dolore.

Evelina -Eva- Tea- docente di storia dell’arte all’Accademia di Brera e all’Università Cattolica del Sacro Cuore, dal 1929 collaboratrice della scuola artistica Beato Angelico dalla quale provengono i pittori Bergogno, Martinelli, Peruzzi che nel 1939 affrescarono la chiesa parrocchiale di San Martino. Scritto datato: Bollate 16 novembre 1947

Vediamo in una mostra tutta di fiori, come sappia spesso contenere la sua propensione per il colore violento e vivo, con ricerche tonali che raggiungono effetti che potremmo chiamare musicali per il ritmo dei passaggi. Il fiore perde spesso le sue forme per diventare un gioco mobile di toni colorati, rotti da guizzi di luce, e la materia generosa contribuisce a dare una consistenza carnosa alle corolle ed alle foglie, quando riescono ad uscire dalla sinfonia cromatica.

Dino Villani – presentando la mostra personale alla Galleria d’arte Cairola di Milano 1-15 ottobre 1970

Una vita a maneggiare notizie tra giornali, radio e tv,  tanto da farne un libro autobiografico, Ho fatto solo il giornalistaMilanista da sempre, (ritiene che la sua più bella intervista l’abbia realizzata con Gianni Rivera), appassionato di ciclismo, (è coautore del libro Una storia su due ruote), amante della musica jazz (è presidente dell’Associazione Bollate Jazz Meeting). Gaudente a tavola, soprattutto in buona compagnia.  Insomma, gran curioso di storie, di umani e di situazioni.
Paolo Nizzola

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari, la fotografia, la storia locale e lo  sport sono sempre stati al centro dei suoi interessi. Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni Bollate 100 anni di immagini (1978), Una storia su due ruote (1989), Il Santuario della Fametta (2010), La Fabbrica dimenticata (2010), Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014). Ha curato anche diverse mostre fotografiche, fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015), La Fabbrica dimenticata (2010), I 40 anni di Radio ABC (1977). È tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.
Giordano Minora