LA SCOPERTA DI BOLLATE

e il mistero della Terronia

La via IV Novembre nei primi anni settanta – Foto © Roberto Pizzo

“ Ohè sun chi

vegnì giò chi a Milan…

Quand sunt rivà chi, mi el terun

ho vist i ca, tanti ca a ses pian

e i fiulitt giugà tacà dre i tram come in giostra…

Si el sù l’è un rebelot, ma anca in sci, la me pias…”

(Enzo Jannacci)

Una bimba che, a fine anni Cinquanta, lascia un piccolo centro della Puglia, che va stretto per i suoi sogni, approda a Bollate e scopre un mondo completamente differente. Affascinata dai palazzi, dai citofoni, sedotta dall’ascensore, lo scambia per una giostra dove ci si muove a piacimento. Supera le diffidenze iniziali, si adegua al costume del luogo, conosce nuovi amici, partecipa a giochi inimmaginabili fino a quel momento. Respira orizzonti di libertà e si imbatte nel mistero della Terronia.

1 ANTEFATTO

Tuglie (Lecce), giugno 1958

Vedendomi euforica per la partenza imminente, molti si stupivano e mi chiedevano: ma come, non ti dispiace andare ad abitare a Bollate, lasciare qui i cuginetti e tutte le persone che conosci? Ci pensavo un attimo e poi rispondevo, non a voce, ma dentro di me: i cuginetti? e chi li vedeva mai? No, non mi dispiaceva andare a conoscere posti nuovi, avevo uno spiccato spirito di avventura. A soli sette anni avevo già viaggiato ben due volte in treno, accompagnata da mio padre, per stare per lunghi periodi a Casorate Sempione, in provincia di Varese, dalla mia nonna paterna e dagli zii, e mi era piaciuto moltissimo. Anche il viaggio era un’esperienza emozionante. Si partiva la sera da Lecce e si arrivava a Milano in Centrale nella tarda mattinata. E ogni volta, elettrizzata dalla particolarità della situazione, non riuscivo a dormire, cosicché dal finestrino potevo assistere allo spettacolo del cielo che da buio si schiariva tra colori incredibili fino al sorgere del sole. All’andata l’aurora capitava quando si era nelle Marche, mentre il treno correva proprio sulla riva di un mare celeste pallido. Al ritorno, invece, albeggiava sulle maestose foreste del Gargano, punteggiate di case bianche. Nel treno, al di sopra dei sedili di velluto rosso, c’era sempre una carta geografica dell’Europa, attraversata da contorte linee nere. Sull’Italia poi erano segnate anche le fermate del convoglio, in modo che in ogni momento si potesse sapere a che punto del viaggio si fosse: Lecce, Brindisi, Bari, Foggia, Pescara, Ancona, Bologna, Milano.

La stazione di Bollate delle Ferrovie Nord Milano. Primi anni settanta – Archivio Giordano Minora

Sì, non vedevo l’ora di partire. Poi, lì a Tuglie, dopo che era finita la scuola, non era proprio così piacevole quel tempo passato a guardare, attraverso le inferriate ricciolute del balcone di mia nonna, i bambini che giocavano in strada. Bambini che mi sembravano acrobati, che, con la bicicletta, si prodigavano in mille complesse evoluzioni e che dopo ogni “numero” guardavano verso di me come a dire: “hai visto che roba?” e poi mi gridavano: Baccalà! Non capivo perché “baccalà”, ma la carica insultante la percepivo tutta. In seguito mi fu chiaro che intendevano evidenziare la mia rigida staticità in confronto alla loro mobilità rapida ed elastica. Tutti i primi giorni di vacanza passati su quel balcone, un’umiliazione cocente ogni volta. Una festa continua da cui ero esclusa e che, per di più, si svolgeva sotto i miei occhi. Non avevo il permesso di scendere a giocare con loro perché, secondo i miei genitori, i bambini “come si deve” restavano in casa e giocavano in casa, mentre quelli che giocavano in strada erano sporchi e maleducati. Avranno avuto anche ragione, ma per me era una grande sofferenza. Anche per questo non mi dispiaceva andarmene via, soprattutto per non sentirmi una nullità di fronte a quei coetanei.

Vedute della città di Tuglie – Foto © Rosaria Stamerra

2 MAGIA DELLA TECNOLOGIA

Bollate, Giugno 1958

La prima cosa che mi colpì arrivando a Bollate fu l’altezza di alcuni palazzi, mi sembrò davvero vertiginosa. Tra una distesa di vecchie cascine da una parte e di villette con giardino dall’altra, si ergeva ogni tanto, isolato, un altissimo edificio. A Tuglie le case non arrivavano mai oltre il primo piano, neppure gli antichi palazzi nobiliari, neppure il palazzo ducale, lassù in cima alla scalinata. Qui, al contrario, si arrivava tranquillamente al quarto e al quinto piano. Tuttavia, ciò che mi sorprese e  “fece epoca in me” furono i citofoni. Nel paese d’origine quasi tutti i portoni avevano pesanti battenti di bronzo a forma di teste di animali o di visi umani stilizzati. Solo poche case di giovani coppie avevano il campanello. Qui invece i campanelli erano tutti in fila sulla parete di fianco ai portoni e, dopo aver suonato, si poteva parlare con gli abitanti delle case come fosse un telefono. Se questo non era qualcosa di magico certo gli assomigliava molto. Presa da un forte desiderio di sperimentazione, qualche volta provavo a far scorrere l’indice su tutta la pulsantiera, suonando tutti i campanelli con un gesto rapidissimo, come avevo visto fare al signor Pierino, l’ortolano ambulante che ogni mattina si fermava davanti a casa mia con il camion carico di verdure. Immediatamente una polifonia di “ chi è? chi è?” si diffondeva nell’aria, con voci tra loro diversissime per timbro e accento. Poi i balconi fiorivano di colorate presenze femminili che si scambiavano opinioni su quel suono apparentemente privo d’autore.

A sinistra, i battenti delle case di Tuglie. A destra, i citofoni del palazzo di via IV Novembre – Foto © Rosaria Stamerra

Guardavo incantata: era proprio una magia. Dovevo avere sicuramente una espressione innocente, visto che a volte dai balconi più bassi mi chiedevano se avessi visto chi aveva suonato. Ma fui presto folgorata da un’altra sorpresa. Quando mia madre mi mandava a comprare il pane, mi portavo dietro mio fratello Cesare e Flavia, una bimba più piccola che era sempre con noi. Passavamo davanti al condominio di via 4 novembre, civico 38, appena ultimato nella costruzione e ancora privo del portone d’ingresso. Fu così che ci imbattemmo nell’ascensore. Era il primo ascensore nella zona e forse, in assoluto, il primo ascensore di Bollate. Ogni qualvolta ci capitavamo nelle vicinanze, emozionati e un po’ intimoriti dalla novità, salivamo a farci un “giro”: dal piano terra al sesto piano e viceversa e poi ancora per non so quante volte. Era esaltante, come fare un giro in giostra, ma molto meglio, perché eravamo noi a guidare il mezzo. Fino a che fummo colti sul fatto dalla signora Q. che, al sesto piano, aprì di colpo la porta e vedendoci non credette ai suoi occhi. La sua sgridata fu molto aggressiva ed essendo io la capo comitiva: ero la maggiore, gli altri due avevano rispettivamente 5 e 4 anni, si rivolse a me con tono piuttosto minaccioso. Così mi resi conto che questo divertimento non era a disposizione di tutti, come avevo creduto, e che qualcuno poteva fortemente risentirsi. Era la mia iniziazione nell’ambiente bollatese.

Un giorno la signorina Luisa Sassi, della omonima vetreria, che aveva stretto amicizia con mia madre, le suggerì di farmi tagliare le trecce perché erano troppo all’antica. Effettivamente qui, nel nuovo mondo, le bambine avevano tagli di capelli corti e vaporosi e nessuna portava quelle ridicole trecce demodé. Mia mamma mi portò a tagliarle da un parrucchiere nella remota via Vittorio Veneto, al confine tra il paese e la campagna. Una strada alberata, lungo la quale scorreva un corso d’acqua dal colore viola scuro e un pochino puzzolente (ricordate il Pudiga?). Con il nuovo taglio a caschetto, forte del mio rinnovato look di bambina moderna, sentivo che molto presto la mia vita sarebbe cambiata.

A sinistra, Cantun Sciatin verso via Concordia nei primi anni Settanta, su questa area sorge il palazzo Comunale – Foto © Roberto Pizzo. A destra, Primi anni Cinquanta: corteo politico sfila in via Vittorio Veneto costeggiando il Pudiga – Archivio Giordano Minora

La via IV Novembre, sullo sfondo l’edificio in costruzione dove ha sede il Ristorante Versilia – fine anni sessanta – Archivio Giordano Minora

3 BOLLATE OVVERO LA LIBERTÀ

La cosa meravigliosa accadde il giorno in cui suonarono alla nostra porta e sul pianerottolo vedemmo una bellissima bambina bionda con gli occhi verdi, una specie di principessina (l’avevo incontrata qualche volta sulle scale) che, con una certa timidezza, chiese a mia madre se mi lasciava scendere in cortile a giocare. Altri due bambini stavano in silenzio dietro di lei, con gli sguardi attenti, in attesa di una risposta. “Vogliamo giocare a Cristoforo Colombo – spiegò – e siamo troppo pochi “. Mia madre ebbe qualche attimo di perplessità. Poi rivolgendosi a me: “ Tu vuoi andare?”

Risposi di sì. Al suo cenno di assenso, vidi i loro visi illuminarsi: mi unii a loro e corremmo felici a precipizio giù per le scale. L’avvio di una nuova avventura bollatese, più avanti conobbi il gruppo al completo: Mariagrazia (la principessina), Annina, Nico, Franco, Rosella, Guido, Giorgio, ai quali aggregai in seguito anche mio fratello Cesare e la piccola Flavia.

Come dimenticarsi di quei giorni? Giorni azzurri di un giugno assolato, finalmente a correre dalla mattina alla sera. I miei genitori avevano cambiato di colpo i loro criteri educativi, forse perché troppo presi dalla gestione del negozio di vini, appena inaugurato in via 4 novembre al 18 (sarebbe diventato un “trani”, cosi erano chiamate le bottiglierie all’epoca, tra i più conosciuti), o forse avevano constatato che questi bambini erano ben educati. O semplicemente si erano adeguati alla tendenza generale: qui nessuno si sognava di tenere prigionieri i bambini dietro l’inferriata di un balcone. Ricordo tanti giochi, considerati dalla mentalità del tempo più adatti ai maschi che alle femmine e che si basavano prevalentemente sulla corsa e sulla prontezza di riflessi. Spesso andavamo a scalare la “montagnetta” di via Pastrengo, fatta di scarti dei cantieri edili (sassi, pezzi di muri e di intonaco, mattoni.): cominciava il boom economico, si abbattevano le vecchie corti per far posto a palazzi e condomini. Questa montagnetta permetteva di entrare nel campo sportivo (che occupava esattamente l’area dove sorge la scuola elementare di via Diaz) scavalcando l’alto muro di cinta.

Compo sportivo di via Diaz – Prime partite di Baseball. Sullo sfondo il palazzo appena costruito di via Pastrengo. Fine Anni cinquanta – Archivio Giordano Minora

A sinistra, Alfredo Milani, custode del campo sportivo, in una foto degli anni quaranta. A destra,la scuola elementare di via Diaz, costruita sull’area del campo sportivo

Qui ci si rincorreva sul grande tappeto erboso e soffice, che pareva di velluto, finché il signor Milani, custode dell’impianto, compariva da lontano urlando e agitando le braccia, così da farci battere in ritirata. Mi sentivo felice: finalmente non ero più “baccalà”, potevo correre anch’io a perdifiato e assaporare in pieno la libertà. A volte, dopo l’imbrunire, si andava a catturare le lucciole con crudele inconsapevolezza, tra le erbe alte e rigogliose intorno alla piccola aia di forma ellittica che stava davanti al pollaio della Zelinda, una signora molto simpatica che tutti chiamavano “la Padovana”, proprio di fronte al numero 3 di via Pastrengo. Il largo marciapiede, che ora interessa il lato destro di via Pastrengo, era occupato dall’orto lungo e stretto della Zelinda, recintato da una rete metallica a maglie larghe. Il tratto di via Pastrengo che adesso sfocia in via Piave ancora non esisteva e al suo posto vi erano campi incolti e ricoperti da un groviglio inaccessibile di erbe e sterpaglie. Anche il lato sinistro della via, dalla cascina all’angolo con piazza Solferino (attuale complesso comprendente la biblioteca) e fino alla villetta dell’avvocato Barbera, era tutto un ampio spazio incolto che aveva come sfondo la scuola media di via Fratellanza. Non esisteva ancora il condominio che comprende il ristorante-hotel “La Versilia” né i palazzi attigui.

Nell’intrico erboso crescevano stupendi fiori spontanei: margherite, campanule rosa e bianche, ma soprattutto piccoli fiorellini celesti detti “occhi della Madonna”. Oggi rimasti un bel ricordo di infanzia perché, come recita la canzone, “là dove c’era l’erba ora c’è una città”.

4 UNA TERRA MISTERIOSA: LA TERRONIA

I bollatesi erano molto interessati agli usi e costumi di noi che venivamo dal sud.

Mia madre mi mandava a fare la spesa nel negozio di alimentari dei signori Maria e Guido Rosso e a comprare l’osso buco nella macelleria Marchesi, entrambi collocati nella via, accanto al bar detto “Dalla bionda”. E lì, spesso, le persone che conoscevo di vista, per alleviare la noia nell’attesa di essere servite, mi rivolgevano delle domande. Rispondevo volentieri, sentendomi al centro dell’attenzione. Domande semplici e un po’ curiose per una bimba, considerata una novizia del posto, finché non si introdusse nei discorsi una parola che rappresentava per me una vera incognita. 

La Macelleria Marchesi di Via IV Novembre. Per gentile concessione di Cesare Motta

“E in agosto per le ferie andrete in Terronia? “, mi chiedevano. “No”, rispondevo leggermente a disagio.”E dove allora?” e io di rimando “a Gallipoli”. “E non è in Terronia?”, replicavano per rafforzare il concetto.”No”, aggiungevo. A questo punto l’interlocutore mi guardava con un misto di diffidenza e incredulità. “ È un posto dove c’è il mare”, specificavo.

A casa, poi, mi misi a cercare sulla carta geografica dove si trovasse questa benedetta Terronia, che non avevo mai sentito nominare e che invece, a Bollate, pareva fosse tanto famosa.

Mi ero fatta l’idea che si trovasse dalle parti della Polonia, per via della desinenza in -onia. A volte succede che nazioni con la stessa desinenza siano confinanti, pensavo, tipo Romania, Ungheria, Bulgaria. Ma non la trovavo. La cercai anche sull’indice finale dell’atlante, ma proprio non c’era.

Provai a chiedere ai bambini con cui giocavo in cortile se ne sapessero qualcosa, ma uno saltò su a dire scandalizzato che Terronia e terrone erano due parolacce e non si dovevano dire, così gli avevano spiegato in casa. Sostenne che erano parolacce peggiori di stupido, scemo e cretino.

Il mistero dunque si infittiva. Mi chiedevo però se davvero poteva trattarsi di parolacce, considerato che tutti le pronunciavano con tanta disinvoltura.

Un giorno colsi l’occasione di domandarlo al papà di Flavia che era un maestro elementare, il maestro Mario D., e che sicuramente lo sapeva. Gli dissi anche che non riuscivo a trovare la Terronia sull’atlante. Lui, dopo un attimo di sconcerto, mi guardò e cominciò a ridere, ma a ridere di gusto che sembrava non riuscisse più a smettere.

Mi sentii profondamente mortificata per quella reazione, talmente risentita che per un po’ cercai di evitarlo. Fu lui poi che in un’altra occasione tornò sull’argomento al centro del mio turbamento e mi disse che la Terronia non esisteva nella realtà, era un luogo immaginario, dai confini incerti. Di sicuro, nella mente di quelli che la immaginavano, era a sud della Lombardia e forse anche dell’Emilia Romagna. Disse che Terronia derivava da “terra” perché molti erano convinti che a sud della Lombardia, fino alla Sicilia, gli abitanti non facessero altro che lavorare la terra. E in parte questo era vero. “E per fortuna c’era chi lavorava la terra! Altrimenti la gente cosa avrebbe mangiato?”, sottolineò quasi a rassicurarmi.  “Ma è davvero una parolaccia?”, chiesi.

Il maestro allora spiegò che il primo che aveva inventato la parola doveva averlo fatto con intenzioni offensive, volendo intendere probabilmente che gli abitanti della Terronia erano sempre sporchi di terra, ma siccome poi questa parola veniva ripetuta ingenuamente, si diffuse la convinzione che significasse davvero un termine geografico.

“Sai -mi spiegò-, sono persone semplici, magari anche anziane. Tu, ad esempio, che hai già fatto diverse volte il viaggio Lecce-Milano e viceversa, conosci bene la successione delle fermate nelle città: Lecce Brindisi Bari.”.. – “sì, Foggia Pescara Ancona..”, lo interruppi per dimostrargli che conoscevo la tratta”. “Ecco, brava! Tu conosci la geografia, e non solo sulla carta geografica, ma perché hai viaggiato e hai potuto così venire a contatto con due “mondi” lontani, molto distanti e differenti come stili di vita e puoi permetterti di fare dei confronti. Ma ci sono persone che non sono mai andate lontano da Bollate, non sanno come è fatta l’Italia, non fanno differenza, ad esempio, tra Campania, Calabria, Sicilia, perciò per loro esiste questa Terronia, una terra lontana e indistinta”. Con questa spiegazione aveva svelato il mistero che mi affliggeva, mi aveva davvero convinta! Del resto, era un bravo maestro.

Da quel giorno, quando le persone mi domandavano ancora se venivo dalla Terronia, ben lungi dall’offendermi, mi sentivo fortunata e persino privilegiata perché avevo viaggiato e la geografia la conoscevo. E non solo sulla carta.

Rosaria Stamerra

Salentina di nascita e bollatese d’adozione. Ha insegnato per 40 anni italiano e latino nei licei di Milano e provincia

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari, la fotografia, la storia locale e lo  sport sono sempre stati al centro dei suoi interessi. Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni Bollate 100 anni di immagini (1978), Una storia su due ruote (1989), Il Santuario della Fametta (2010), La Fabbrica dimenticata (2010), Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014). Ha curato anche diverse mostre fotografiche, fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015), La Fabbrica dimenticata (2010), I 40 anni di Radio ABC (1977). È tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.
Giordano Minora