“E in agosto per le ferie andrete in Terronia? “, mi chiedevano. “No”, rispondevo leggermente a disagio.”E dove allora?” e io di rimando “a Gallipoli”. “E non è in Terronia?”, replicavano per rafforzare il concetto.”No”, aggiungevo. A questo punto l’interlocutore mi guardava con un misto di diffidenza e incredulità. “ È un posto dove c’è il mare”, specificavo.
A casa, poi, mi misi a cercare sulla carta geografica dove si trovasse questa benedetta Terronia, che non avevo mai sentito nominare e che invece, a Bollate, pareva fosse tanto famosa.
Mi ero fatta l’idea che si trovasse dalle parti della Polonia, per via della desinenza in -onia. A volte succede che nazioni con la stessa desinenza siano confinanti, pensavo, tipo Romania, Ungheria, Bulgaria. Ma non la trovavo. La cercai anche sull’indice finale dell’atlante, ma proprio non c’era.
Provai a chiedere ai bambini con cui giocavo in cortile se ne sapessero qualcosa, ma uno saltò su a dire scandalizzato che Terronia e terrone erano due parolacce e non si dovevano dire, così gli avevano spiegato in casa. Sostenne che erano parolacce peggiori di stupido, scemo e cretino.
Il mistero dunque si infittiva. Mi chiedevo però se davvero poteva trattarsi di parolacce, considerato che tutti le pronunciavano con tanta disinvoltura.
Un giorno colsi l’occasione di domandarlo al papà di Flavia che era un maestro elementare, il maestro Mario D., e che sicuramente lo sapeva. Gli dissi anche che non riuscivo a trovare la Terronia sull’atlante. Lui, dopo un attimo di sconcerto, mi guardò e cominciò a ridere, ma a ridere di gusto che sembrava non riuscisse più a smettere.
Mi sentii profondamente mortificata per quella reazione, talmente risentita che per un po’ cercai di evitarlo. Fu lui poi che in un’altra occasione tornò sull’argomento al centro del mio turbamento e mi disse che la Terronia non esisteva nella realtà, era un luogo immaginario, dai confini incerti. Di sicuro, nella mente di quelli che la immaginavano, era a sud della Lombardia e forse anche dell’Emilia Romagna. Disse che Terronia derivava da “terra” perché molti erano convinti che a sud della Lombardia, fino alla Sicilia, gli abitanti non facessero altro che lavorare la terra. E in parte questo era vero. “E per fortuna c’era chi lavorava la terra! Altrimenti la gente cosa avrebbe mangiato?”, sottolineò quasi a rassicurarmi. “Ma è davvero una parolaccia?”, chiesi.
Il maestro allora spiegò che il primo che aveva inventato la parola doveva averlo fatto con intenzioni offensive, volendo intendere probabilmente che gli abitanti della Terronia erano sempre sporchi di terra, ma siccome poi questa parola veniva ripetuta ingenuamente, si diffuse la convinzione che significasse davvero un termine geografico.
“Sai -mi spiegò-, sono persone semplici, magari anche anziane. Tu, ad esempio, che hai già fatto diverse volte il viaggio Lecce-Milano e viceversa, conosci bene la successione delle fermate nelle città: Lecce Brindisi Bari.”.. – “sì, Foggia Pescara Ancona..”, lo interruppi per dimostrargli che conoscevo la tratta”. “Ecco, brava! Tu conosci la geografia, e non solo sulla carta geografica, ma perché hai viaggiato e hai potuto così venire a contatto con due “mondi” lontani, molto distanti e differenti come stili di vita e puoi permetterti di fare dei confronti. Ma ci sono persone che non sono mai andate lontano da Bollate, non sanno come è fatta l’Italia, non fanno differenza, ad esempio, tra Campania, Calabria, Sicilia, perciò per loro esiste questa Terronia, una terra lontana e indistinta”. Con questa spiegazione aveva svelato il mistero che mi affliggeva, mi aveva davvero convinta! Del resto, era un bravo maestro.
Da quel giorno, quando le persone mi domandavano ancora se venivo dalla Terronia, ben lungi dall’offendermi, mi sentivo fortunata e persino privilegiata perché avevo viaggiato e la geografia la conoscevo. E non solo sulla carta.
Rosaria Stamerra
Salentina di nascita e bollatese d’adozione. Ha insegnato per 40 anni italiano e latino nei licei di Milano e provincia