L’uva bianca Sclava, originaria della Slavonia, è la più diffusa in Lombardia e nel territorio milanese, mentre per il vino rosso le uve più usuali sono le Grillo, Maiolo, Granesta, specie nel bresciano, mantovano e cremonese, territori di cui si hanno maggiori informazioni circa i vitigni impiantati. La Sclava è una uva precoce con acini molto vinosi. (Attualmente la Sclava o Schiava, il tipo dal grappolo nero, è ancora diffusa in Lombardia anche senza la certezza che sia della stessa qualità e origine di quella medioevale a causa di innesti avvenuti nel XIX secolo con viti americane per combattere la filossera.) Più rare in Lombardia sono invece la Malixia e la Sarcula, maggiormente presenti in Emilia Romagna.
Bisogna poi distinguere tra i vini consumati dalla popolazione in genere e quelli dai ceti più elevati. Per questi ultimi arrivano in tavola i vini cosìddetti “di Romania”, bianchi passiti, provenienti dai territori bizantini dell’Egeo, da Smirne e dalle isole Egee, da Rodi e Cipro, mentre da Candia (Creta) arriva la Malvasia dolce, liquorosa e con 18 gradi alcolici – il vino più ricercato e caro dell’epoca- tutti commercializzati dai veneziani. Pure ricercati sono la Ribolla istriana, il Greco di Calabria, il Garganico pugliese, il diffusissimo rosso Zeppolino toscano, il Trebbiano e i Lambrusca bianco e nero emiliani, la Vernaccia ligure e il Nebbiolo piemontese.
Difficilmente i vini autoctoni incontrerebbero oggi il favore del pubblico, non tanto per il tipo di vitigno quanto per il sapore e i vari sentori di profumi estranei ai gusti moderni. La tecnica di vinificazione, di conservazione e invecchiamento, l’uso di aggiunte varie di erbe e dolcificanti, allora di norma, li renderebbero non graditi. Da buoni lombardi teniamoci ben stretta la Bonarda dell’Oltrepo’ Pavese ed eventualmente chiudiamo un occhio, ma non il palato, se del piacentino.