Il Vino fa buon sangue

Tra vigneti e pergolati a Bollate

Stampa del Settecento raffigurante un pergolato, chiamato anche berso’, ad armatura curvilinea e spesso rivestito di rampicanti ornamentali, misurava una quindicina di metri interamente ricoperti dalla vite americana

“La vita è così amara , il vino è così dolce, perché dunque non bere?”

(Umberto Saba)

Se oggi girassimo per le vie di Bollate, osservando giardini e cortili, difficilmente ritroveremmo dei pergolati ricoperti per buona parte di vite americana, detta anche fragola o isabella. Un tempo invece erano piuttosto diffusi, ricordo quello nel giardino della villa di via Fratellanza, dove abitai negli anni ’50. Celeberrimo il pergolato, con il gioco delle bocce, dell’osteria della Vignetta, attuale via de Amicis. Del resto, già l’etimologia del nome di quel rione ratifica la presenza in loco di vitigni, con tanto di conferma addirittura certificata da documenti curiali del 1538 e che riportano di come “sacerdoti e prelati di salute cagionevole potevano trovare in quella zona, limitrofa con Senago, aria leggera e buon vino”.

In genere, i pergolati, chiamati anche berso’, ad armatura curvilinea e spesso rivestiti di rampicanti ornamentali, misuravano una quindicina di metri interamente ricoperti dalla vite americana, non molto fruttifera in verità. Poco importa però, visto che salvo un grappolo raccolto “tanto per gradire”, il resto rimaneva per buona parte sui tralci a marcire. Il pergolato, piuttosto diffuso in passato nei ritrovi pubblici, seppur bello da vedersi era decisamente inospitale, nonostante l’invitante ombra che creava negli afosi pomeriggi estivi, infestato com’era da  ronzanti e pungenti api, fastidiose zanzare, noiosi insetti vari, soprattutto dal re del luogo: il ragno, lo stakanovista costruttore di impalpabili e appiccicose ragnatele.

La fase della pigiatura dell’uva in una stampa del Seicento

Vino & Vinello

 La coltivazione della vite non solo per la vinificazione, ma anche per il consumo a tavola, anche a Bollate ha  avuto un forte incremento dall’inizio del millennio causato dalla crescita delle attività mercantili e da quella demografica. Sia gli enti ecclesiastici, proprietari di grandi estensioni territoriali, che i ricchi nobili e i cittadini  arricchitisi col commercio e con le attività finanziarie, sono incentivati ad investire sempre più nella agricoltura e in particolare nella coltivazione viticola.

 A seguito di questo sviluppo, il vino è perciò tassato con varie gabelle, su tutte la tassa sull’imbottato da pagare alla calenda di novembre, il primo giorno del mese. Nel nostro territorio, già nel 1256 ci imbattiamo in un classico esempio dell’importanza economica derivata dalla produzione di “nettare degli dei”, evidenziata dalla richiesta al comune di Bollate del pagamento dei danni subiti dal Monastero di Santa Redegonda “ per non chiariti danneggiamenti subiti dalla sua vigna e valutati dal perito del tribunale in 25 libbre carolinge, l’equivalente del valore di 10,3 kg di argento di alta purezza, pari al valore di circa 1 ettolitro di vino”. La dimensione della vigna non è specificata, il danno causa una notevole perdita economica, con l’aggiunta del rischio di lasciare le povere monache senza uva e derivati. La vertenza richiederà una ventina di sedute e più di due anni per arrivare a sentenza.

Il vino e il vinello- suo sottoprodotto- hanno una grande rilevanza nella dieta specie dei ceti più poveri. Le molte vitamine e gli zuccheri contenuti sono di estrema importanza per il regime alimentare generalmente povero dell’epoca. Inoltre, poiché contengono una base di alcol ( le gradazioni alcoliche del vino comune e ancora più del vinello sono molto basse) sono ritenute bevande più salubri rispetto all’acqua, sempre fortemente a rischio di inquinamento. Per questo motivo vengono consumati , seppur diluiti, anche dai bambini. Si calcola che il consumo giornaliero pro capite si aggiri intorno ai 2 litri.

La fase della pigiatura dell’uva raccolta in una stampa del Seicento

Nei secoli che vanno dal XI al XV, le vigne sono molto diffuse nel milanese in tutti i tipi di territori di pianura, anche dentro le città e i borghi. Utilizzando i dati del censimento del 1558 si rileva che il vigneto detto “Avitato” di Bollate con Ospiate e Cascina del Sole copra il 23,5% della superficie agricola, contro quella coltivata a cereali e legumi che fa registrare circa il doppio di utilizzo. Il terreno di natura argillosa, tipico del territorio delle Groane, sarebbe più adatto per la coltivazione dell’uva nera rispetto alla bianca, che invece è la più richiesta. L’uva raccolta ha un triplice impiego, principalmente la vinificazione, poi il consumo a tavola e infine l’essicamento al sole per ottenere l’uvetta passa a lunga conservazione. Si raccoglie anche quella ancora acerba per produrre, con aggiunta di aglio e cipolle, un condimento chiamato agresto.

L’uva viene pigiata usualmente coi piedi, meno di frequente con particolari bastoni sagomati detti “ammostatoi”, quasi assenti i torchi anche di piccole dimensioni e capacità. Esistono invece pochi grandi torchi, molto costosi  e di esclusiva proprietà di monasteri e ricchi proprietari terrieri (Un grande torchio ben conservato, attivo fino a 100 anni fa, si trova esposto alla Certosa di Pavia). La lavorazione locale delle uve porta a produrre vini comuni con un basso tenore alcolico e una bassa resa. Il vinello, anche detto acquerello, è un prodotto di bassa qualità e di basso prezzo, ottenuto facendo riposare le vinacce nell’acqua, da qui il detto “el vin de vassela” per la sua infima qualità (la  sua produzione e vendita cesseranno all’inizio dello secolo scorso). Il vino così ottenuto ha tuttavia una vita breve, già a fine primavera degrada e rende necessaria l’aggiunta di dolcificanti come miele o mosto cotto ed erbe aromatiche (o resine che sono ancora usate per alcuni vini in Grecia dalla notte dei tempi) per renderlo bevibile e quindi commerciabile. Quello invece ottenuto utilizzando il torchio, più ricco di tannini, ha una capacità di invecchiamento maggiore e una resa quantitativa e qualitativa più elevata.

Documento con la stima dei terreni nel territorio di Cassina Nuova risalente alla seconda meta del XVIII secolo

Piantina catastale settecentesca di Bollate con indicazione delle delimitazioni degli appezzamenti di terreno molti dei quali adibiti a vigne

Quali vitigni compongono le vigne bollatesi?

Perché a Bulà i moron fan l’uga

Sono noti almeno 40 tipi di vitigni utilizzati nel Nord Italia, alcuni ancora presenti seppur modificati. Tuttavia è da rilevare che all’epoca il vino preferito è un bianco dolce o per lo meno abboccato.

(Non è solo tipica di questa epoca la preferenza per i vini dolci e liquorosi: già i greci e i romani bevevano vini addolciti ed aromatizzati. Quelli dolci sono i preferiti nei paesi latini e mediterranei fino all’epoca moderna. Dal XV secolo gli inglesi diventano grandi importatori di vini dolci dal Portogallo, lo Sack il più diffuso, dalla Spagna, il Malvasia chiamato “Malmsey.” Shakespeare esalta il Malvasia con un passo della sua commedia “Le allegre comari di Windsor” nel quale Falstaff declama le qualità e le proprietà di questo vino. Nel ‘700, in Italia a Firenze, un celebre ospite di villa Arconati a Castellazzo, Carlo Goldoni ne “La Locandiera” fa decantare (il “decanter”non c’entra nulla in questo caso) dal borioso e spiantato marchese di Forlimpopoli la bontà del “vino di Cipro” ( anche se nella finzione scenica il vino in questione offerto dallo stesso risulta essere una vera e propria “ciofeca”).  Al contrario,  il conte, da nuovo arricchito, preferisce il “top” dei vini di allora, il Malvasia.

Carlo Goldoni , che fu ospite anche a Villa Arconati , fa decantare ad uno dei personaggi della commedia  La Locandiera la bontà del “Vino di Cipro”.

Shakespeare esalta il Malvasia, chiamato “Malmsey, con un passo della sua commedia “Le allegre comari di Windsor” nel quale Falstaff declama le qualità e le proprietà di questo vino.

L’uva bianca Sclava, originaria della Slavonia, è la più diffusa in Lombardia e nel territorio milanese, mentre per il vino rosso le uve più usuali sono le Grillo, Maiolo, Granesta, specie nel bresciano, mantovano e cremonese, territori di cui si hanno maggiori informazioni circa i vitigni impiantati. La Sclava è una uva precoce con acini molto vinosi. (Attualmente la Sclava o Schiava, il tipo dal grappolo nero, è ancora diffusa in Lombardia anche senza la certezza che sia della stessa qualità e origine di quella medioevale a causa di innesti avvenuti nel XIX secolo con viti americane per combattere la filossera.) Più rare  in Lombardia sono invece la Malixia e la Sarcula, maggiormente presenti in Emilia Romagna.

Bisogna poi distinguere tra i vini consumati dalla popolazione in genere e quelli dai ceti più elevati. Per questi ultimi arrivano in tavola i vini cosìddetti “di Romania”, bianchi passiti, provenienti dai territori bizantini dell’Egeo, da Smirne e dalle isole Egee, da Rodi e Cipro, mentre da Candia (Creta) arriva la Malvasia dolce, liquorosa e con 18 gradi alcolici – il vino più ricercato e caro dell’epoca- tutti commercializzati dai veneziani.  Pure ricercati sono la Ribolla istriana, il Greco di Calabria, il Garganico pugliese, il diffusissimo rosso Zeppolino toscano, il Trebbiano e i Lambrusca bianco e nero  emiliani, la Vernaccia ligure e il Nebbiolo piemontese.

Difficilmente i vini autoctoni incontrerebbero oggi il favore del pubblico, non tanto per il tipo di vitigno quanto per il sapore e i vari sentori di profumi estranei ai gusti moderni. La tecnica di vinificazione, di conservazione e invecchiamento, l’uso di aggiunte varie di erbe e dolcificanti, allora di norma, li renderebbero non graditi.  Da buoni lombardi teniamoci ben stretta la Bonarda dell’Oltrepo’ Pavese ed eventualmente chiudiamo un occhio, ma non il palato, se del piacentino.

“A Bulà i moron fan l’uga”

A sinistra, un esempio coltivazione con “vite avvitata”  o “piantata padana”  molto in uso sino ai primi del Novecento. A destra, disegno raffigurante lo schema della cosiddetta piantata lombarda o padana. Questo sistema di coltivazione veniva praticato dal 500. Non esistendo  i vigneti, la vite veniva fatta crescere sugli alberi di gelso piantati ai bordi del terreno destinato alle coltivazioni.  Da qui nasce la famosa strofa della canzone popolare contadina “A Bulà i moron fan l’uga”.

La produzione bollatese nel Medioevo?

La stima è rilevata in base ai dati citati nel Catasto del 1558 relativi ai terreni agricoli.

Nel territorio di Bollate, includendo anche Cascina del Sole ed Ospiate, la coltivazione de l’Avitato ha una estensione di oltre 2500 pertiche quadrate milanesi, pari a circa 165 ettari. Una pertica quadrata corrisponde a 654,52 mq circa, 15,28 fanno un ettaro dove si impiantano non meno di 3000 barbatelle, dalle quali si hanno da 1,5 a 2,5 kg di uva per pianta. A raccolta avvenuta si hanno minimo  di 165x3000x1,5 chilogrammi di uva. Non considero quella utilizzata per il consumo a tavola e per altri impieghi. Valutando nel 75% la resa dell’uva in vino, abbiamo 750 000 x 0,75 = circa 565 000 litri di possibile vino bollatese prodotto (valore sottostimato).

Scene medioevali dedicate al mondo del vino

Il costo al litro

Tralascio di valutare i costi dei vini pregiati riservati a pochi “eletti”. Il vino dei vigneti bollatesi, e in generale quelli di qualità media per l’epoca, ha un prezzo che varia a seconda delle annate da 5 a 10 denari il litro (utilizzo le unità di misura attuali, mentre per la moneta mantengo quelle originali). Sul vino gravano numerosi balzelli come dazi per l’entrata e l’uscita dalle città, oltre al ben più gravoso imbottato, che oscilla tra 30 e 50 denari per 50 litri in base alla qualità, 50 litri corrispondono a una brenta. Con questo nome si indica sia una unità di misura che un tipo di bigoncio, in questo caso la gerla di tipo allungato da portare in spalla. Non si registrano dati attendibili sul “vinello” che pure paga l’imbottato anche se in misura ridotta.

1 litro di vino  bollatese ha circa lo stesso prezzo di 1 chilogrammo di pane di mistura (segale + miglio).

I dati riportati testimoniano il grande interesse economico che risiedeva nella produzione vinicola anche nell’ambito di un borgo come Bollate non certo votato a una simile coltivazione. Certamente sempre però gradita dalla sua popolazione. Basti pensare che da un apposito questionario, effettuato  in occasione di una visita pastorale nell’estate del 1901, tra i 1039 abitanti censiti di Cassina Nuova emerge che  “trattasi di  popolazione contadina tranquilla, operosa, povera e dai costumi buoni, morali e cristiani, nella quale però è da correggere l’abuso alla troppa frequenza all’osteria.” Dunque, per concludere, non mi resta  che prendere a prestito una frase di Luigi Veronelli, l’aedo del vino:

“ Il vino è il canto della terra verso il cielo”

Vademecum:

1 brenta medioevale = 48,28 litro —  1 lira = 12 soldi = 240 denari — 1 pertica quadrata milanese = circa 654,52 mq — 1 pertica =   24 tavole

Nazzareno Marcon

Bollatese di nascita, da 50 anni vivo a Milano ove opero nel settore dei prodotti chimici da 11 lustri. Coppi, Benvenuti, Rivera sono i miei campioni preferiti. Amo la musica lirica ed operistica, il riso in ogni sua elaborazione gastronomica.

Nazzareno Marcon

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari, la fotografia, la storia locale e lo  sport sono sempre stati al centro dei suoi interessi. Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni Bollate 100 anni di immagini (1978), Una storia su due ruote (1989), Il Santuario della Fametta (2010), La Fabbrica dimenticata (2010), Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014). Ha curato anche diverse mostre fotografiche, fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015), La Fabbrica dimenticata (2010), I 40 anni di Radio ABC (1977). È tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.
Giordano Minora