Il mondo in una strada

La via Garibaldi a Bollate

La via Garibaldi  in tutta la sua prospettiva,  anni cinquanta –  Archivio Giordano Minora               a

“C’è solo la strada su cui puoi contare…”. Quando dentro una via è racchiuso un piccolo mondo antico fatto di personaggi, case, negozi, fantasie. Un microcosmo nel quale nascono sogni, si creano amicizie e si annidano ricordi. Una sorta di piccola città che richiama sentimenti di vite vissute, di luoghi conosciuti, abitudini consolidate, per dirla con le parole di  Guccini, “tornano visi e dolori e stagioni, amori e mattoni che parlano. Cento finestre e un cortile, le voci, le liti, la miseria,..rime e fedi giovanili, bimbe ora vecchie..”. Insomma,un universo fatto di socialità, incontri, persone, avvenimenti: perché, anche se solo nel perimetro di un cammino , come sostiene Gaber, “ la strada è l’unica salvezza, c’è solo la voglia,  il bisogno di uscire…“. E andare alla scoperta di nuovi orizzonti.

A sinistra, l’ingresso del negozio Nava. Al centro, la fontanella davanti al Municipio che rappresentava un motivo di attrazione per i bambini. A destra,” il piacere di andare nel negozio del Nava”- Archivio Origgi- Mesini

Via Garibaldi numero 8

Da sempre e fino all’università ho abitato lì in via Garibaldi, al n. 8 il cancelletto, al n.6 il cancellone.

 Era la casa dei nonni che abitavano al piano superiore dove poi vennero aggiunte le nostre stanze;  con mamma e papà eravamo otto fratelli, accuditi nella quotidianità dalle premurose cure di Cornelia, la Lela, ancora presente tra noi alla bella età di 93 anni. La sua figura è stata determinante nella impresa eroica di mia madre, trovatasi vedova improvvisamente, nel traghettare dignitosamente tutti noi otto minorenni all’età adulta.

 La casa era in un giardino per me senza confini; anteriormente un muretto con una cancellata verde su via Garibaldi e una posteriormente su via Ambrogio da Bollate. Nella parte posteriore del giardino il nonno aveva fatto ricavare un orto piuttosto grande; lo coltivava il signor Garbagnati, pensionato suo amico. Con il Garbagnati avevo un bel rapporto anche perché sapeva tutto di ciclismo; diceva di essere amico di Vincenzo Torriani, il patron del Giro d’Italia, che era di Novate.  Quello che mi raccontava sullo sport era dogma e ne facevo tesoro nel riferirlo ai compagni per continuare ad alimentare la mia immagine del più esperto in materia.

Quattro fratelli Argenteri con la tata “Lela”, davanti al cancello con margherita che dava su via Garibaldi . – Per gentile concessione della famiglia Argenteri

A sinistra, i sei fratelli Argenteri con la mamma Mina Milesi, sullo sfondo alcuni edifici della via. Gli otto fratelli Argenteri: da destra, in piedi Cristina e Angelo, sedute Annalisa con in braccio Barbara, Tina e Letizia, in basso da sinistra, Paola e Monica. Per gentile concessione della famiglia Argenteri

La via Garibaldi era per noi un microcosmo; avevamo tutto ed eravamo i protagonisti del microcosmo. Di fianco a noi la scuola ed il municipio con di fronte una fontanella, la classica vedovellaposta proprio su una curva ad angolo retto.  Vicino due panchine in pietra che, nelle ore tarde delle serate estive, erano il punto d’incontro dei perditempo,il nonno li chiamava i perdaballe, oggi li chiamano fancazzisti.

Gruppo di allegri perditempo, all’inizio della via, posano prima di una scorribanda per il paese con un carretto trainato dal cavallo. Primi anni Cinquanta. Archivio Origgi – Mesini

Posa di una corona sulla lapide dei caduti sulla facciata del Municipio. In primo piano il fisarmonicista Angiulin suona inni patriottici – Fine anni Quaranta Archivio Origgi/Mesini

Il Sindaco, il cavalier Vittorio Nizzola. Archivio Origgi/Mesini   “Non era anziano, ma ci metteva soggezione; lavorava in banca a Milano e prendeva il mio stesso treno

Il municipio era un  edificio costruito nel 1912 con tre gradini ed un’asta portabandiera sulla facciata, sul lato la lapide con  la lista dei caduti della Grande Guerra. Dal muretto di casa sovente vedevamo entrare in municipio il sindaco, il cavalier Vittorio Nizzola. Non era anziano ma ci metteva soggezione; lavorava in banca a Milano e prendeva il mio stesso treno.

Nel paese non c’erano le medie e ci si doveva rivolgere in città, il treno delle ferrovie nord delle 7,12 proveniente da Saronno portava a Milano noi studenti ed i pendolari.

Il Municipio si prolungava in via Matteotti  dove c’era il Palma  prestinaio, per distinguerlo dal Palma  fiorista, e il tabaccaio Meacca, andavo a comprare il sale e i fiammiferi. Il Meacca faceva anche da mescita: tutto il giorno erano pieni quattro tavoli dove bevevano vino e giocavano a carte. In un angolo c’era una sputacchiera a pedale e sulla parete una targhetta azzurra di metallo con scritto “ Vietato sputare per terra” , era anche stampata la croce di Lorena della Società antitubercolare. Al secondo anno di medicina ho capito il tutto.

 Di fronte al municipio c’era l’Origgi , un’ insegna definiva il negozio Fotocartoleria , fondato e gestito dal cavalier Luigi Origgi, dall’età indefinibile, minuto con capelli bianchi tra l’ Einstein e il direttore d’orchestra, era un’istituzione. Sempre con una giacca a quadretti neri e papillon, con le due figlie, Renata e Teresina, faceva da edicolante, cartolaio, giocattolaio, fotografo, libraio e informatore alla mia famiglia sui miei spostamenti in bici in paese.

 Il negozio presentava due piccole vetrine con intelaiatura in legno: una inferiore a livello del marciapiede tappezzata da fumetti. All’interno il negozio era microscopico con diffuso un profumo di carta , esposti in una rastrelliera di legno  sul davanti i quotidiani .

 L’Origgi vendeva le stringhe, i gommoni alla liquirizia e alla frutta, bacchette di zucchero colorato e  strane bustine con polvere di castagne o di mela. 

 Da lui acquistavamo soprattutto le biglie perché la gamma proposta era varia. La cartoleria edicola era il punto d’incontro di noi scolari.

 L’Origgi era anche un vero fotografo; lo ricordo alle processioni o eventi particolari con la macchina a tracolla; adesso lo invidierei per la sua Rolleiflex La cartolibreria comunicava, attraverso una tenda, ad un altro locale che doveva essere la sezione fotografica. Lì in un cunicolo, una  grossa macchina fotografica nera su intelaiatura in legno e su binari serviva per le foto tessera, di fianco un localino era la camera oscura. All’esterno accanto alla scritta Fotocartolibreria c’erano due insegne: una a rombo bordato di rosso con la scritta Agfa ed una con la scritta Ferrania.

 A seconda  dell’ubicazione avveniva la metamorfosi: più tecnico e professionale nel settore fotografia per vendere una pellicola ( in quella vetrina, nei primi anni Sessanta con l’avvento della musica  beat, la nipote Patrizia intratteneva i giovanissimi che si radunavano all’esterno  proponendo, con un altoparlante collegato a un mangianastri, i 45 giri con le hit dell’epoca) , più casareccio in cartoleria dove però aveva momenti poetici a seconda del tipo di acquisto. Su tutti, la vendita dei pennini, articolo nel quale si riteneva un autentico esperto.

Il cavalier Luigi Origgi – “Dall’età indefinibile, minuto con capelli bianchi tra l’ Einstein e il direttore d’orchestra, era un’istituzione”

Su tutti la vendita dei pennini, articolo nel quale si riteneva un autentico esperto

Le due vetrine della Fotocartoleria Origgi Archivio Origgi/Mesini

Di fronte all’Origgi c’era l’entrata dell’asilo Maria, allora  tenuto dalle suore; sul piazzale la Pampanini con il suo triciclo: in inverno con le caldarroste e in estate con i gelati. I bambini dell’asilo si vedevano ai funerali; in fila per due, con un baschetto e una mantellina blu in inverno, aprivano, scortati da una suora, il corteo funebre.

 Alla destra di Origgi, nella continuazione di via Garibaldi in via Sartirana, c’era la farmacia  Boveri e il negozio di granaglie del signor Nava. Era piccolo, con un profumo intenso con grossi sacchi di iuta a terra e più piccoli su mensole. I sacchi aperti con i bordi arrotolati contenevano farine, granaglie e vari legumi secchi. Quando mi mandavano a comprare le lenticchie o i fagioli era una festa: il Nava mi dava sempre una manciata di castagne secche che tenevo nei pantaloni e mi piaceva succhiare. Anni dopo il piacere di andare dal Nava continuò; non più per le castagne ma per la figlia Egle, molto più grande di me ma sempre presente nelle mie prime fantasie erotiche. Il massimo  era essere serviti da lei nei mesi caldi: chinandosi sul sacco di iuta con la paletta di legno, la camicetta trasparente e scollata lasciava intravedere il seno.

A sinistra, Carlo Nava nel suo negozio di granaglie  – Anni Cinquanta. A destra, la Pampanini in versione gelataia. Archivio Origgi/Mesini

 Il carretto della Pampanini sta aspettando l’uscita dei bambini dall’Asilo Maria. Archivio Origgi/Mesini

Avventori con il vestito della festa davanti al bar San Carlo, metà anni Cinquanta. Archivio Cooperativa San Martino

Al lato dell’Origgi, inoltrandosi in via Garibaldi c’era la Cooperativa La Speranza, in contrapposizione con la Cooperativa la Benvenuta; ambedue con un loro colore politico.  All ‘entrata c’era un grosso mastello  con mestolo in legno contenente la mostarda ricoperta da carta oleata con vicino un catino in alluminio contenente lo stoccafisso in acqua.  Sopra il bancone pendeva, da un motorino elettrico fissato al soffitto, una lunga asta con numerose liste di carta moschicida blu: il movimento a pendolo doveva scacciare le mosche. In estate la porta d’entrata, sempre aperta, aveva una tenda fatta da fili di corda con palline di legno. Quando facevamo la spesa in Cooperativa, alla fine degli acquisti si consegnava il libretto; aveva  la copertina in cartone color azzurrognolo carta da zucchero con costa nera e con le pagine con righe verticali e con margine violaceo.  Con la matita copiativa, che tenevano all’orecchio e inumidivano con la lingua prima di usarla, veniva riportato  il costo della spesa e a fine anno in base al totale veniva fatto uno sconto. Annesso alla Cooperativa c’era  il bar san Carlo: una finestra sulla strada  e tre gradini, dall’altra parte un bancone tutto in alluminio con i coperchi lucenti conici contenente  i gusti dei gelati. Quando prendevamo il ghiacciolo o il mottarello dovevamo tenere il bastoncino e darlo al papà che lo usava per steccare le dita fratturate. Gli avventori del locale erano sempre gli stessi (le celebri compagnie dei bar); nei tavoli in fondo giocavano a scopa o tresette. I tavoli erano in legno, la formica arrivò di lì a poco, insieme al biliardo e a un nuovo frigorifero con le vaschette con i gusti del gelato in bella vista .Vaschette entrate nella leggenda la sera del  27 maggio del 1964 quando a Vienna l’ Inter vinse la sua prima coppa dei Campioni: in onore dei nerazzurri il tifosissimo gestore Tino battezzò i diversi gusti ognuno con il nome di un giocatore.

Subito dopo la Cooperativa c’era la merciaia, la signora Angela, un negozietto con una piccola vetrina e tre gradini, all’interno, dietro il banco in legno, tante scatole negli scaffali e sul dorso di ognuna il campione del contenuto. Era un trionfo di bottoni di varie fogge e dimensioni, quasi tutti in madreperla, e di cerniere  lampo. Una scaletta in legno permetteva di arrivare agli scaffali più alti. Lo spigolo del banco aveva inciso un metro centimetrato per misurare i pezzi di fettuccia o elastico.   Adiacente alla merciaia la macelleria del Rino; macelleria bovina, equina e suina come diceva una grande insegna in lamiera dipinta in rosso.  Alle pareti , ricoperte fino a metà da marmo bianco, erano appesi trofei di lunghe corna bovine con nastri tricolore e fotografie in bianco e nero del Rino con vicino un suo animale, vincitori in qualche fiera. Il banco tutto in marmo bianco era molto alto e lassù compariva il Rino, corpulento, biondo un po’ stempiato. Dietro di lui una barra in metallo cromato con vari uncini sosteneva grandi pezzature di carne con le fasce muscolari bianche su cui spiccava la timbratura  violacea fatta dal nonno Felice veterinario.

 La macelleria del Rino faceva angolo con via Filippo Turati: in fondo alla via c’era la Cooperativa La Benvenuta, a metà lo Strada, il mio parrucchiere.

 Era piuttosto anziano , piccoletto e pelato , lavorava con i due figli. In negozio, davanti alle due poltrone per i clienti ,si allungava una grande specchiera con lateralmente due alzate di mensole in cristallo con flaconcini di Tricofilina e brillantina liquida Linetti.   La differenza con il barbiere della via Garibaldi, il Pierino “penel”, che  preferiva invece  utilizzare la crema bianca del Brylcreem che spalmava a piene mani sui capelli.

Di fianco alla  nostra casa c’erano due villette dei primi ‘900; in quella confinante con noi la  Franca Paggetti faceva la pettinatrice nella sua abitazione o si muoveva a domicilio; i saloni dovevano ancora venire.

Alla seconda villetta c’era la “ mescita ” della signora Adelina . Antesignana dei wine bar. Era un locale un po’ buio con un piccolo banco ricoperto di metallo, poche sedie e due tavoli, dominava un profumo greve di vino misto a quello del tabacco. Nei bicchieri si servivano solo due o tre tipi di vino. L’ Adelina faceva anche da vinaia; nel retro erano sistemate delle damigiane da cui si  spillava il vino nei bottiglioni che portavano gli avventori. L’aiutava il marito, un brav’uomo sempre silenzioso. Anni dopo, seppi che era il secondo marito dell’Adelina; ci fu infatti un funerale ai resti rimpatriati del primo marito  tra i caduti nell’eccidio di Cefalonia della divisione Acqui,  mi impressionarono i soldati con l’elmetto e le ghette bianche che scortavano questa piccola cassetta coperta dalla bandiera italiana e soprattutto il pianto dell’Adelina. Dirimpetto alla nostra casa c’era una villetta con giardino , fontana, e i caratteristici  vetri colorati, era abitata da Aurelio Colombo l’ottico del paese,  con le figlie Roberta e Renata  aveva il negozio in via Roma., poi tramandato alla generazioni future in una nuova sede  trasferita sotto i portici di via degli Alpini. La casa venne abbattuta per far posto a un condominio  e sotto vi  trovarono spazio negozi, in primis  le confezioni Munafò e la tipografia cartoleria di Mario Brambilla

Cartolina anni Sessanta – Sulla destra l’edificio  più vecchio della via, costruito nel 1921, abitato dal dottor Peppino Ghioni, commercialista per antonomasia del paese.    

Poco più avanti c’era una  tintoria  e subito adiacente la salumeria della signora Maria. Era un trionfo del palato. Il profumo entrando era inconfondibile; appesi prosciutti vari, mortadelle e salumi di ogni genere. La sciura Maria era un personaggio felliniano: piuttosto alta, con un grosso seno, bionda con labbra dipinte pesantemente e sempre ingioiellata. Era ancor più appariscente quando non era in negozio: girava in paese con un cappotto cammello con una grossa volpe rossa al collo. Il marito, il signor Annibale, era la metà di lei, mingherlino e seduto perennemente all’entrata del negozio, sempre in giacca e cravatta. Anni più tardi li identificai come una coppia da operetta.

 Avevano un figlio, il Pierino, che aiutava in salumeria ed era celebre per essere  tra i tombeur des femmes del paese  dove sfrecciava  con la sua Alfa  spider decapottabile.

Quasi di fronte alla salumeria c’era il Caffè Sport: un mito. Dalla strada si saliva di un gradino su uno slargo con un pergolato, pieno di sedie e qualche tavolino quindi l’entrata del bar. Subito all’ingresso c’era il bancone dei gelati tutto in alluminio con le parigine infilate a formare lunghi tralci. Il bancone del bar era la continuazione di quello dei gelati. In fondo c’era il biliardo con la classica specchiera con stampata una pubblicità  ed una rastrelliera con le stecche e il conta punti. Nei periodi in cui si poteva stare all’esterno gli habitués del Caffè  Sport sostavano sulle sedie sotto il pergolato. Il bar era tenuto da due sorelle, Rosa e Anna; la vera padrona era la Rosa, il locale era chiamato familiarmente “la Rosètta” , seno prorompente, capelli corvini e due orecchini ad anelli. Nel suo genere era una bellezza zingaresca . C’era sempre qualcuno più spregiudicato, il falchetto del momento, che faceva  lo spiritoso con qualche avances alla Rosa ma lei li sapeva zittire in maniera ironica e categorica. Qualche anno più tardi il locale traslocò di fronte e vi trovarono spazio due campi di bocce che divennero la sede della  rinomata bocciofila “la Rosa”,  in onore della proprietaria, nel  contempo maritatasi con  Adolfo Brambilla,uno dei suoi avventori  spasimanti.

La bocciofila era praticamente attaccata al giardino dell’edificio  più vecchio della via, classe 1921, abitato dal dottor Peppino Ghioni, commercialista per antonomasia del paese.

La mitica Rosa attorniata da un gruppo di giocatori della bocciofila che portava il suo nome. Archivio Giordano Minora

 Confinante con il bar, “il Garibaldi”, l’unico cinema, gestito dalla famiglia Pria. Era piccolo, con le file di sedie ribaltabili in legno con i pianali  di compensato regolarmente scheggiati con inevitabili graffiature alle cosce quando noi, con i calzoni corti, ci sedevamo. La faccia inferiore di ogni pianale era disseminata di residui di gomma da masticare.   L’odore dominante era del tabacco misto a quello caratteristico dell’umidità di cui erano impregnati i tendoni rossi in velluto, ormai marroni, che davano sulla sala. Ogni proiezione era accompagnata dai chiassosi commenti, più o  meno educati, del pubblico; oggi direbbero che il pubblico interagiva. La tecnologia era quella che era: sovente la pellicola si inceppava e quindi la proiezione si interrompeva. Era allora l’inizio di cori, di fischi e invettive. Quando l’interruzione era dovuta alla rottura della pellicola  il fascio di luce del proiettore diretto allo schermo mostrava stagnanti  nuvole azzurrognole di fumo di tabacco. Nelle ultime file c’era sempre qualche coppietta che si imboscava per poter limonare o pomiciare in santa pace: ad ogni interruzione con comparsa di luce era facile vedere la coppietta ricomporsi velocemente; quasi sempre era lei che si riallacciava la camicetta, anche perché difficilmente si andava oltre. Il cinema era  infatti il luogo più appartato.

A sinistra, la locandina del film “il serpente sulla croce” uscito nel 1952. A destra, stesso anno: il tutto esaurito al cinema Garibaldi per la visione del film del momento.

 In quel punto via Garibaldi piegava a destra interrotta dal  passaggio a livello, una sorta di confine rispetto al quartiere che stava al di là dei binari (a sinistra le case della  Vignetta  e davanti la via  che portava  il nome dal santuario di Madonna in Campagna situato sul fondo ).

 Sulla curva dall’altro lato c’era la caserma  dei carabinieri: un edificio a due piani circondato da un muretto in cemento sormontato da filo spinato. Un cancello verde con al centro uno spioncino a sportello su cui apriva la porta d’entrata del piccolo edificio. Il maresciallo, molto amico del nonno; era un siciliano, di cognome Baldo, pelato e tarchiato. Negli ultimi tempi si era piccato di essere uno scrittore ed aveva scritto un romanzo “Anna la trovatella”. La stradina che conduceva alla porta carraia sul retro della caserma confluiva nel piccolo rione chiamato la Fornace, dal nome di un’originaria  lavorazione in loco, oppure anche il  “Cairo” perché vi abitavano i primi immigrati. Dall’altro lato della caserma  spuntava la casa  con il portico di Felice Tenconi,  una volta  sede di una trattoria con “giuoco delle bocce”, poi trasformatasi nel  laboratorio ricami della signora Pina, nato dalle ceneri della “fabbrica degli scialli” che si trovava alla Vignetta. Dietro l’abitazione, delimitata da un fontanile che fungeva da lavatoio per le donne della corte, si affacciava l’isola san Domenico, “el casermon”, con i suoi due piani di ringhiere  , affiancate da un sentiero di ghiaia e terra battuta, dall’improbabile  nome di via san Domenico, lungo il  quale erano ubicate alcune villette.

 Il microcosmo di via Garibaldi terminava lì. La via Ambrogio in quel tratto  attraversato dal fontanile era ancora una ipotesi, il passaggio a livello segnava  il confine. Oltre le sbarre si allungava un altro orizzonte, il nostro far west domestico, la nuova frontiera rappresentata dalle  lontane cascine, quella delle Monache e delle  frazioni Cascina del Sole e Cassina Nuova.

 ANGELO ARGENTERI 

Originario di Bollate, è nato nel 1948. Unico figlio maschio degli otto del dottor Antonio, medico condotto per antonomasia dell’allora paese, ha seguito le orme paterne in ambito professionale. Specializzatosi a Parigi in chirurgia vascolare, è stato per anni direttore responsabile dell’unità operativa complessa  di questa specialità presso il polo universitario di  Pavia e, successivamente, presso quello di Lodi. Tra gli incarichi ricoperti, è stato titolare della cattedra di chirurgia vascolare all’università di Pavia. Attualmente è componente del nucleo di valutazione dell’azienda ospedaliera di Lodi. E’ autore di diverse pubblicazioni scientifiche in materia di patologia vascolare
ANGELO ARGENTERI

Medico chirurgo

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari ,la fotografia, la storia locale e lo  sport   sono sempre stati al centro dei suoi interessi. .Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni  Bollate 100 anni di immagini (1978) , Una storia su due ruote (1989) Il Santuario della Fametta (2010) La Fabbrica dimenticata (2010) Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014) . Ha curato anche diverse mostre fotografiche fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015) La Fabbrica dimenticata (2010) I 40 anni di Radio ABC (1977). E’ tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.

Giordano Minora