C’erano una volta…

Il bosco e il paese scomparsi.

L’area del bosco nel contesto del territorio ad ovest di Milano nel 1600.

“Un bel paesaggio una volta distrutto non torna più”

Andrea Zanzotto (poeta)

“Bollate con Madonna del Bosco”, cosi si trova Bollate nell’elenco dei comuni del catasto teresiano, edito nel 1722, che censiva i terreni e gli edifici del Lombardo-Veneto Austriaco.

Questa località, associata al nostro comune, ora non dice assolutamente nulla né come luogo né tantomeno come bosco. Una domanda allora sorge spontanea: dove si trovava, quali caratteristiche urbanistiche aveva, che storie poteva racchiudere e come mai sia il Paese che il Bosco sono entrambi scomparsi?

Contrariamente a quanto possiamo immaginare non si trovavano nella zona a nord di Bollate, ossia nelle Groane, dove la presenza di zone boschive si è mantenuta bene o male sino ai nostri giorni, ma sorprendentemente la localizziamo fra Ospiate e Baranzate.

Qui, sulle rive del torrente Nirone, agli inizi dell’era cristiana nel VI secolo era sorto un monastero in una zona all’epoca completamente disabitata. L’attuale statale Varesina non era ancora nella sede attuale, era sostituita da una precedente strada romana che passava più ad est inserendosi in quella che oggi è la via Don Uboldi proveniente da Baranzate. Poco prima di Bollate, dove oggi è presente la casa di riposo San Martino, deviava verso Ospiate dove, in via Madonnina, sorgeva un altro vecchio edificio di culto, la chiesa di Sant’Ambrogio in Strada. A ricordarci oggi la sua presenza è rimasta solo l’abside, l’attuale edicola votiva della Madonna Addolorata.

Dopo questa digressione geografica, necessaria per spiegare l’assoluta amenità della zona scelta per edificare il monastero, ci concentriamo sul bosco che dava il nome e che per secoli intreccerà il suo destino.

Il convento apparteneva all’ordine Agostiniano e come da antica consuetudine era legato al lascito di vaste proprietà terriere per garantirne il sostentamento. Appezzamenti del bosco facevano quindi parte di queste proprietà. Anche altri enti religiosi erano proprietari di queste porzioni di vegetazione, in primis i Certosini della limitrofa Certosa di Garegnano, sorta al confine sud del bosco nel 1400. Si era in presenza perciò di una vasta area verde, residuo delle antiche foreste che dalle prealpi arrivavano sino alle porte di Milano e che via via negli anni erano state disboscate per trasformarsi in terreni coltivati.

Il nostro bosco, denominato “della Merlata” (oggi il nome purtroppo ricorda luoghi ben diversi, uno per tutti il recente mega centro commerciale), si è potuto mantenere per cosi tanti anni grazie a diversi fattori concomitanti. Anzitutto la vastità di questi terreni di proprietà (appartenendo per la maggior parte ad enti ecclesiali) portava ad una pluralità di attività di sfruttamento del suolo e fra queste rientrava anche il bosco, non certo meno remunerativo di altre funzioni grazie proprio alla disponibilità di superficie. Così, il taglio e la commercializzazione di grossi alberi, indispensabili per essere utilizzati come materiale di carpenteria nelle costruzioni, erano una buona fonte di introiti. A favore del mantenimento del bosco giocava pure il fattore morfologico: sorgeva in una porzione di territorio di matrice argillosa e ciò lo rendeva poco adatto all’agricoltura. Ad avvalorare questo aspetto troviamo un altro nome dato al bosco: in una mappa del 1600 è chiamato “GRUANA BOSCHO”, appunto per l’analogia con il terreno di natura argillosa del tutto simile a quello delle odierne Groane, le quali poi non erano altro che la sua naturale espansione a nord. A testimoniarlo  le numerose fornaci che nel tempo erano sorte ai suoi margini.

Il bosco della Merlata si estendeva fra due strade: il Sempione ad ovest e la Varesina ad est e nella vasta area fra queste due arterie non si trovavano centri abitati di rilievo, esisteva solo la Cascina Triulza (tornata d’attualità con Expo 2015), situata in una radura e anch’essa di proprietà dei Certosini di Garegnano. La Triulza rappresentava un luogo di riferimento di questa foresta. Una simile area naturale e selvaggia era un buon approdo per poter esercitare la caccia, passatempo amato dall’aristocrazia dell’epoca. Inoltre, la sua collocazione era ottimale in quanto ubicata a poca distanza dal Castello Sforzesco, dimora Ducale, e sopratutto era un grande parco recintato, detto Barcho.

ll bosco della Merlata con evidenziate le località della Madonna del Bosco, Ospiate e Bollate

Ci si trovava di fronte dunque ad un’ampia area boschiva che lambiva a nord Ospiate, saldandosi poi ai boschi e alle brughiere delle Groane. A sud erano posizionati gli insediamenti dell’attuale quartiere Gallaratese, a est la  Varesina e a ovest il paese di Pero, attraversato dalla statale del Sempione. Questa estensione geografica rimase più o meno invariata per parecchi secoli . Gli sconvolgimenti sociali, politici e culturali che stavano cambiando la società alla fine del Settecento indirettamente interessarono anche il nostro bosco.

Con gli ideali dell’illuminismo e della rivoluzione francese arrivati al seguito delle truppe napoleoniche nel 1797 anche a Milano, si arrivò alla totale soppressione degli enti ecclesiastici, espropriandoli di beni e  immobili di loro proprietà che saranno venduti all’asta, a cominciare dai monasteri.

Iniziò così un frazionamento dei terreni. Per i nuovi proprietari, con appezzamenti più piccoli a disposizione, non era remunerativo il mantenimento del bosco e si avviò in maniera inesorabile il disboscamento.

Già una trentina di anni dopo, i boschi si erano ridotti a due lembi separati: i “boschi della Merlata di sopra”, vicino al monastero di Ospiate, e i “boschi della Merlata di sotto”, più ridotti nella zona del cimitero maggiore di Milano a Musocco.

La macchia verde rimasta si estendeva ormai solo sopra i terreni più argillosi e improduttivi in quanto la spesa per il dissodamento non si sarebbe ammortizzata causa la scarsità dei futuri raccolti. Tuttavia, dopo l’unità d’Italia, l’abrogazione delle leggi austriache di salvaguardia sui boschi, unita alla crescita tumultuosa di Milano, diedero valore anche a questi aridi terreni: l’argilla che componeva il suolo forniva la materia prima per le lavorazioni di mattoni e laterizi delle fornaci, alimentate con la legna ricavata dal bosco, segnando in tal modo il destino di questi lembi verdi che scomparvero alla fine dell’Ottocento. Non per niente il bosco della Merlata  si ridusse a diventare una leggenda.

La vegetazione della Merlata

Nonostante il suolo fosse per la maggior parte argilloso, esistevano però grosse differenze ambientali rispetto ai boschi delle Groane. Anzitutto lo strato di argilla era più esiguo ed essendo al di fuori del pianalto la falda era molto superficiale, dando origine a piccole paludi e boschetti allagati. Questo favoriva la crescita degli ontani, dei frassini e in particolare delle querce, con esemplari maestosi. Un tipo di vegetazione che oggi stentiamo a credere potesse essere presente in pianura. Possiamo perciò immaginare una compatta massa boschiva con maestose querce e carpini, mentre nelle radure, create dal brucare dell’abbondante selvaggina, presumere una varietà di cespugli di erica e ginestre.

Così doveva apparire il bosco della Merlata nelle aree più asciutte: un bosco di querce e carpini.

Come doveva apparire il bosco della Merlata nelle aree allagate: un bosco di ontani e frassini

Invece, dove le acque di risorgiva allagavano il terreno, vegetavano gli ontani e gli svettanti frassini, con i tronchi direttamente emergenti dalle acque. Molte di queste piante figurano tutt’ora negli erbari delle università milanesi e in centri studi naturalistici.

Ad evidenziare l’antica biodiversità presente, riportiamo un curioso episodio accaduto nel 1833 ad Ospiate.

Una carrozza, con a bordo due distinti signori, si presentò presso la frazione chiedendo agli stupiti contadini di farsi guidare, in cambio di una lauta mancia, nei boschi della Merlata.

Il primo pensiero degli ipotetici accompagnatori fu quello che i due fossero venuti per cercare il leggendario tesoro dei briganti che spadroneggiarono nel bosco intorno al 1500. Si favoleggiava infatti che fosse stato sepolto in un punto segreto della zona e mai ancora scoperto. Stupore e incredulità crebbero quando ci si accorse che questi signori in realtà erano due illustri professori di botanica, Giuseppe Balsamo e Giuseppe De Notaris, impegnati a raccogliere una diversità di erbe all’apparenza insignificanti. La sorpresa aumentò ancor di più quando un riluttante ragazzotto venne spinto, dietro lauto compenso, ad inoltrarsi in una palude per raccogliere una piantina filiforme con uno strano bulbo che destava l’eccitazione e l’entusiasmo dei due botanici:avevano riconosciuto parecchi esemplari di una rara felce acquatica, la “Pilularia globulifera” della quale ebbero poi a scrivere nella relazione al termine dell’escursione, definendola come “comunissima nelle piccole paludi dei boschi della Merlata presso Bollate”.

Ebbene, questa pianta è ora in serio pericolo di estinzione in tutto il mondo, ciò fa capire la grande naturalità che il nostro bosco possedeva. De Notaris, diventato un insigne botanico, dopo la morte donò la sua cospicua collezione essiccata contribuendo a formare il nucleo fondante dell’Erbario, attualmente curato dal Dipartimento di Biologia vegetale dell’Università La Sapienza di Roma. Con un pizzico di amor patrio locale si può essere orgogliosi del fatto che una felce raccolta quasi 200 anni fa, in un bosco ora scomparso di Bollate, è presente come esemplare di pregio nell’erbario della celebre università romana!

Questo episodio mette in risalto un altro aspetto: la flora rara poteva essere riconosciuta solo dagli studiosi, da tutti erano invece apprezzate le amene e copiose fioriture del sottobosco, composte di bucaneve, campanellini, scille, anemoni, narcisi e mughetti, tanto da far divenire il bosco meta di passeggiate primaverili fuoriporta . Attività alla quale si affiancava la ricerca di funghi, inclusi i pregiati porcini e ovuli, che prosperavano in simbiosi con le maestose querce. Naturalmente, al termine di queste bucoliche passeggiate, i milanesi del tempo  si rifocillavano nelle numerose osterie poste ai suoi margini. Tra loro, famosissima era l’osteria della Melgasciata, localizzata dove ora c’è la via Mac Mahon a Milano, tutt’ora ombreggiata da enormi olmi, residuo delle antiche propaggini del bosco.

L’osteria della Melgasciata in una foto dell’inizio del secolo scorso

Sulle pareti del locale era dipinto un affresco popolare che raffigurava due briganti, Giacomo Legorino e Giovanni Sgorlino, che nel 1500, con la loro banda, imperversavano nel bosco, assalendo i viandanti delle vicine strade del Sempione e della Varesina. Questa raffigurazione ci consente di aprire un nuovo capitolo della storia del nostro bosco: il brigantaggio. Un fenomeno talmente diffuso che l’eco delle rapine e dei delitti delle bande di questi pericolosi malviventi era ancora vivo nei racconti e nelle storie della Milano di tre secoli dopo. Nemmeno la cattura dei due briganti e la loro pubblica esecuzione portò alla totale scomparsa del fenomeno. Per parecchi anni il banditismo continuò a depredare la zona. Intorno a questi due personaggi, che utilizzavano l’osteria come loro base, la fantasia popolare aveva imbastito la leggenda di un favoloso tesoro, frutto delle loro cospicue rapine, nascosto nel bosco prima del loro arresto e della esecuzione. Insomma, una vicenda dal sapore mitologico che sembra anticipare di qualche secolo la trama della celeberrima fiaba di Robert Louis Stevenson ,“l’isola del tesoro”, che ha incantato generazioni di bambini.

L’affresco che ancora nei primi anni 60 si poteva vedere su un muro dell’osteria della Melgasciata raffigura i due briganti Battista Sgorlino e Giacomo Legorino.

Naturalmente un ambiente così selvaggio era ricco di fauna selvatica, anche di grosse dimensioni, in particolare, cervi, caprioli, cinghiali e lupi, animali che davano soddisfazione al bottino di caccia dell’aristocrazia Milanese. A tal proposito, si ricorda una battuta di caccia organizzata nientemeno che per il re di Spagna Filippo IV nel 1634, quando fu ospite dei monaci della Certosa di Garegnano, mentre il suo seguito era alloggiato nel convento della Madonna del Bosco. Le cronache dell’epoca raccontano che nella circostanza il re uccise ben 6 lupi!

Filippo IV re di Spagna in tenuta da cacciatore

Influenza del ”Bosco della Merlata” per Bollate.

Bollate era capoluogo di un’antichissima Pieve Cristiana, una sorta di Provincia, con i paesi che la componevano tutti ubicati ad oriente del bosco come a costituire una barriera invalicabile.

Per esemplificare, Arese benché vicinissima a Bollate apparteneva alla Pieve di Trenno, un paese distante più di una decina di chilometri. Questa dislocazione probabilmente era dovuta al fatto che per raggiungere Arese si doveva attraversare, a rischio di pericoli, la parte nord del Bosco della Merlata. Non per niente, prima dei lavori per la costruzione della fiera a Rho Pero, inaugurata nel 2005, e di quelli seguenti per Expo 2015, per raggiungere da Bollate il quartiere Gallaratese e il paese di Pero si doveva passare da Rho o da Milano in quanto, nonostante fosse sparito il bosco, non esistevano strade di collegamento nelle aree interessate dal disboscamento. Mio nonno Martino Minora, classe 1866, ricordava ancora gli ultimi lembi del bosco esistenti e raccontava a mio padre Carlo quando da piccolo, in compagnia di altri bambini, andavano nel bosco a “fa i sciochit”( i ciocchetti), cioè raccogliere la legna dei rami secchi caduti, portarli a casa per utilizzarli nel camino.

Adesso che, per dirla con Celentano, “la dove c’era l’erba ora c’è una città”, sui terreni in questione e’ stato costruito di tutto: la linea ferroviaria per Torino, i tracciati urbani delle autostrade Torino- Venezia, dei laghi e la tangenziale nord, il cimitero maggiore di Milano, il deposito Fiorenza delle ferrovie, il nuovo quartiere Merlata Discrict, i padiglioni della fiera di Rho- Pero, affiancati poi da quelli di Expo 2015, ora area Mind dove da qualche tempo campeggia la maxistruttura ospedaliera del nuovo Galeazzi, opere nate sulle ceneri della storica raffineria di Pero. Qualche kilometro più in là sono dislocati il carcere di Bollate, le zone commerciali e industriali di Bollate e Baranzate e siccome il progresso avanza inesorabile, adesso anche gli ultimi campi rimasti in loco stanno per lasciare spazio a nuove edificazioni.

Di fronte a questa invasione di cemento e calcestruzzo, appare beffarda la proposta, fatta qualche anno fa da un importante funzionario della regione, di riservare almeno una porzione di territorio da rimboschire per tenere vivo il ricordo del bosco della Merlata. Purtroppo questo intento lodevole, nonostante la vastità delle aree allora ancora libere, non è stato minimamente preso in considerazione, né tantomeno il progetto suggerito dal Parco delle Groane di espandersi a sud inglobando le rimanenti aree agricole dell’antico bosco.

Come consolazione, seppure un po’ ai margini estremi, un pezzo del bosco della Merlata è arrivato ai nostri giorni e ha trovato la sua sede all’interno dell’oasi WWF del Caloggio a Bollate. Qui un pezzo di terra mai messo a coltura mantiene ancora tutte le caratteristiche dello scomparso bosco: le fioriture del sottobosco sono identiche a quelle che i milanesi di un tempo si recavano ad ammirare in primavera.

Fioriture nel bosco del Caloggio, simili a quelle presenti un tempo nei boschi delle Merlata

Maestosa quercia farnia al Caloggio, discendente delle vecchie querce dei boschi delle Merlata

Alcuni grossi esemplari di querce, discendenti di quelle antiche che vegetavano nel bosco della Merlata, sono tutt’ora presenti, insieme a tante altre, piantumate più recentemente per ricreare l’habitat tipico del bosco scomparso.

Ma c’è anche un’ altra presenza che lega l’oasi del Caloggio al bosco della Merlata: i fontanili Triulza e Litta.

Due fontanili scavati per utilizzare l’acqua di falda quando si incominciò a disboscare massicciamente per la conseguente necessità di irrigare i terreni ricavati.

In proposito, interessante è il caso del fontanile Triulza. Non esistente nel catasto Teresiano del 1722, lo si ritrova alla fine del secolo con una sola sorgente scavata, effettuata quando la vendita dei terreni degli enti religiosi ha dato il via alla fase dei disboscamenti. Con il trascorrere degli anni, cresce il fabbisogno d’acqua necessario all’irrigazione per cui si aggiunge lo scavo di una seconda sorgente. La scomparsa totale del bosco a fine Ottocento porta successivamente a scavare la terza sorgente, l’ultima ad essere realizzata nel milanese.

Una vecchia cartina dei primi dell’Ottocento dell’archivio di Stato di Milano, riportante l’andamento della roggia Triulza, mette ben in risalto questa descrizione.

Andamento della roggia Triulza: in giallo i termini “boscaccio” e “risi della Triulza”

Si intravvedono infatti due sorgenti, segno che il dissodamento del bosco non è ancora completo. Analizzandola nel dettaglio troviamo censiti dei toponimi come Boscaccio. Boscaccio era un termine che anticamente indicava un bosco degradato, segno che siamo alla fine della presenza del bosco stesso: i nuovi proprietari hanno stabilito di abbattere le piante di pregio per ricavare buone entrate di denaro, lasciando poi il bosco in abbandono. Seguendo l’andamento della roggia troviamo poi, come sorpresa finale, la dicitura “risi della Triulza”; ossia l’acqua che ne derivava veniva utilizzata per alimentare le risaie della cascina Triulza. Se andiamo ad osservare la cartina posta in apertura dello scritto vediamo Milano circondata da un cerchio tratteggiato: era la linea di confine entro la quale non si poteva coltivare il riso poiché il ristagno d’acqua era considerato malsano per la salute e causa di molte malattie.

Ancora non si era venuti a conoscenza che la vera causa della malaria derivava dalla zanzara anofele e non dall’umidità dell’aria dovuta al ristagno d’acqua, perciò si faceva il possibile per non avere aree stagnanti vicine alla città. La Cascina Triulza, come si nota, era proprio poco fuori da questo limite e per il suo isolamento era il luogo ideale per coltivare questo prezioso cereale tanto ricercato nelle tavole milanesi.

E il paese della Madonna del Bosco invece che fine ha fatto?

Scacciati i religiosi, è stato trasformato in una semplice cascina. La millenaria chiesa crollò a causa di eccezionali nevicate, il resto del chiostro e delle abitazioni, non più sottoposte a manutenzione, andarono in rovina finché non vennero progressivamente abbandonate.

Così, insieme al bosco, anche il paese scomparve per sempre!

Maurizio Minora

Delegato dal WWF Insubria Sez. Groane per la gestione dell’oasi del Caloggio.
Impegnato sul fronte delle problematiche ambientali locali, esperto di acque superficiali della zona torrenti e fontanili, sono anche  Guardia Ecologica Volontaria della Città Metropolitana di Milano.
Maurizio Minora