ANDAVAMO IN PIAZZA

“Quella del Comune“

Uno scorcio della piazza negli anni Cinquanta. La tipologia del flusso era varia: tantissime le persone, poche le automobili e le prime motorette, molte le biciclette, tanti i carretti trainati da cavalli. (Archivio Origgi Mesini)

‘Ci vediamo in piazza, andiamo in piazza… proprio nella piazza afferiscono pensieri e incontri, affari e processi” (Andrea Emiliani)

Già dalla denominazione, piazza Martiri della Libertà, racchiudeva l’essenza della sua funzione: il ruolo di fulcro della vita sociale e politica della città.

Pur non avendo le caratteristiche di una vera e propria piazza, in quanto derivante da un arretramento rispetto al filo strada, il luogo costituiva il vero spazio collettivo del paese.

Su di esso si affacciavano i tre edifici più importanti: il municipio, la scuola e l’asilo. Qui si tenevano tutte le celebrazioni ufficiali, le manifestazioni pubbliche, i comizi politici e sindacali, le proteste (memorabili alcuni episodi di contestazione), le raccolte di firme con i banchetti a sostegno delle petizioni popolari. Luogo di incontro e di transito, era considerato punto strategico per la distribuzione dei volantini della propaganda politica e traguardo naturale di cortei di vario genere.

A sinistra, la piazza e la sede del municipio, inaugurati l’11 novembre 1912, festa di San Martino, patrono della città. (Archivio Giordano Minora) – A destra, Metà Anni Cinquanta. La Piazza intitolata ai Martiri della Libertà.  In primo piano la storica “vedovella”(Archivio Giordano Minora)

1948 – Manifestazione operaia contro il carovita e per l’aumento dei salari. (Archivio Origgi Mesini)

Ma era anche momento di ritrovo, di socialità, di animazione, perché – come scrive Beppe Severgnini – “la piazza è ecumenica, ha qualcosa per tutti, vecchi e giovani, uomini e donne, ricchi e poveri, italiani e stranieri”. Insomma, un’autentica agorà democratica.

Sulla piazza, tra l’altro, era localizzato il negozio del fotografo Origgi; quando qualche compagnia di coscritti, di sportivi, di amici, sentiva il bisogno di farsi ritrarre per tramandare ai posteri momenti di allegria collettiva, il luogo diventava lo sfondo obbligatorio per farsi immortalare.

Fine anni Quaranta –  Una funambolica esibizione di un improvvisato trombettista stupisce i giovani alunni all’uscita dalla scuola. (Archivio Origgi Mesini)

1946 – Gruppi di giovani ciclisti bollatesi. Riconoscibili Carletto Alzati, detto “Giotta”(primo a sin.)  e Giovanni Colombo (quarta da sin.) (Archivio Origgi Mesini)

1947 – “L’ultimo hurra’ ” dei coscritti della classe 1929 prima di partire per il servizio di leva. Allora della durata di 18 mesi (Archivio Origgi Mesini)

Primi anni Cinquanta. Un giro su un’Alfa Romeo non poteva che passare dalla piazza. (Archivio Origgi Mesini)

Piazza Martiri della Libertà

Si è sempre chiamata piazza Martiri della Libertà ma nessuno di noi l’ha mai indicata così; le denominazioni erano varie e facevano parte di un lessico paesano, la cui dizione variava a seconda della provenienza: “piazza del Comune o del Municipio” oppure “la piazza dell’Origgi, la piazza delle scuole, la piazza dell’asilo”.
Quando si combinava un incontro con la frase” ci vediamo in piazza “era sottinteso il ritrovo nei suoi spazi. È sempre stata la più accogliente anche se meno tecnica e spaziosa dell’altra, la piazza San Francesco. In questa si teneva il mercato settimanale, nei mesi estivi diventava un’aia per il granoturco, c’era il primo distributore di benzina (una stazione Esso tenuta dal Giacomino, figlio del Morelli, il droghiere), era sede di una pesa pubblica per i carretti, insomma, aveva una sua connotazione ben precisa nelle attività di Bollate ma non eguagliava il carattere, la personalità e l’intimità di “ quella del municipio”.
I miei anni verdi si sono sviluppati nel suo contesto agli inizi degli anni Sessanta e la dizione “piazza Martiri della Libertà” non ha mai fatto parte del lessico della mia “banda”, ma neanche di quasi tutti i bollatesi. Lo posso confessare: nessuno di noi monelli sapeva chi fossero i Martiri della Libertà e soprattutto perché lo fossero. Non ci interessava minimamente, la piazza era il nostro terreno di gioco e questo ci bastava.

Prima metà Anni Cinquanta – la felicità dei ragazzini di spingersi in bici sino alla piazza. Sulla strada i resti del passaggio dei carretti trascinati dai cavalli.

Il via vai dei carretti agricoli faceva della piazza una vera miniera per i pollici verdi e per chi coltivava un orticello: era frequente e normale vedere donne che, armate di paletta e secchio, raccoglievano, destinandolo a concime, gli escrementi dei cavalli”

(Archivio Origgi Mesini)

Per la verità aveva ben poco di piazza, intesa in senso stretto urbanistico; era più uno slargo. In pratica era un trivio costituito dall’incontro ed inizio di tre strade: via Matteotti, via Sartirana e via Garibaldi. Ma le tre vie, in un paese come Bollate, diventavano gli assi portanti del suo tessuto urbano, della sua economia e soprattutto della sua socialità: la destinazione di ognuna, le loro connessioni e il loro incontro, erano il primo elemento che conferiva al luogo una sua personalità.
– Via Matteotti era un passaggio obbligato, alla e dalla stazione; una volta imboccata dalla piazza alla seconda traversa a sinistra. Andando diritto si raggiungevano invece le sbarre del passaggio a livello, che divideva il paese dal cosiddetto Oltrepò, inteso come aldilà della ferroviaria, verso le frazioni di Cascina del Sole e Cassina Nuova .
– Via Sartirana metteva in connessione la piazza con tutta la zona centrale del paese che gravitava attorno alla chiesa parrocchiale di San Martino , quindi al cimitero e poi a Ospiate; riceveva il traffico da via Roma dopo una stretta curva a gomito a sinistra.
– Via Garibaldi originava diritta dalla piazza per portare al passaggio a livello di Madonna in Campagna, mentre dalla sua traversa via Turati, portava a costeggiare il Pudiga e conduceva in direzione Traversagna e Castellazzo.
Comprensibile dunque, come il transito in ambedue i sensi nelle tre strade e la connessione tra le varie zone, facessero della piazza un punto “di riferimento”; era il nord magnetico della bussola bollatese. La tipologia del flusso era quindi varia a seconda degli orari: tantissime le persone, poche le automobili, molte le biciclette, tanti i carretti trainati da cavalli. Il loro passaggio evocava in noi ragazzini le storie western dei fumetti; la televisione era da poco arrivata con le serie di Rex Rider, Wild Bill Hickok e Penna Bianca guerriero cheyenne.
Il via vai dei carretti agricoli faceva della piazza una vera miniera per i pollici verdi e per chi coltivava un orticello: era frequente e normale vedere donne che, armate di paletta e secchio, raccoglievano, destinandolo a concime, gli escrementi dei cavalli.
Oltre a questi aspetti “dinamici“, la piazza si presentava con tutto un suo impianto scenografico “statico” che le conferiva una sua eleganza: è stata il palco di un teatro i cui attori sono stati i bollatesi nel corso degli anni e il cui copione variava a seconda dei momenti storici e degli eventi contingenti del paese: di allegria, paura, dolore, esaltazione, delusione, commozione, rabbia, tristezza, adesione, protesta, curiosità.
La scenografia era costituita da elementi quali gli alberi, il municipio e i negozi: erano lo sfondo e le quinte
. Pur se modificati nel tempo sono gli unici rimasti immutati nella commedia umana bollatese.

Primi anni Cinquanta. Pronti alla baldoria, con il vestito della festa a bordo del carretto trainato dal cavallo. (Archivio Origgi Mesini)

1946 – La classe 1928, reduce dalla visita di leva, si gode gli ultimi sprazzi di vita civile. 

Prima tra tutti una comparsa: la “vedovella”. Era la fontanella a getto continuo posta sulla curva ad angolo retto a destra per chi arrivava da via Matteotti per imboccare via Garibaldi. Era stata disegnata da Luca Beltrami, architetto professore al Politecnico milanese, che aveva vinto nel 1931 il concorso nazionale per il progetto di una fontanella. L’acqua corrente nelle case era un lusso. Come lei, a Milano, erano circa 600. Tutta in ghisa, di colore verde ramarro con una pigna stilizzata alla sommità e un bacino raccoglitore, sempre pieno, da cui l’acqua defluiva lentamente; era finalizzato per poter abbeverare i cavalli e i cani. Il cannello era in ottone con sembianza di drago ad imitazione dei doccioni del Duomo; da qui il detto “ andem a bev al bar del drago verde”, per indicare una bevuta quando non si ha una lira. Era stata subito soprannominata “la vedovella“, per il continuo flusso dell’acqua come il pianto continuo e inconsolabile di una vedova. Da anni è stata eliminata e solo grazie alle suorine dell’adiacente asilo Maria e stata salvata dalla distruzione; e’ stata  accolta nel loro cortile.
La fontana era la nostra compagna di giochi: da lei caricavamo le pistole ad acqua o riempivamo i sacchetti di plastica ( da poco comparsi nelle nostre case) per fare la “bomba ad acqua”. Era molto democratica: si riempivano bottiglie da portare a casa, qualcuno ci lavava la bici, molti si pulivano dopo il cono gelato acquistato al vicino bar san Carlo della cooperativa la Speranza, altri in estate si rinfrescavano la testa sotto il getto.
Il gioco più diffuso era chiudere il flusso del cannello generando così un getto dal foro superiore. Il divertimento consisteva nel poter produrre un getto tale da raggiungere il marciapiede di fronte e inondare il malcapitato che transitava, meglio se non conosciuto, e poi fuggire. L’asfalto all’interno della curva era quindi sempre bagnato e viscido: chi arrivava veloce in moto o in bici da via Matteotti per entrare nella curva a destra rischiava una caduta. Il Boniardi, portacolori del Pedale Bollatese, con la sua bici da corsa ne sapeva qualcosa.

Fine anni quaranta – Giovani bollatesi in una posa spiritosa, vicino alla storica fontanella. (Archivio Origgi/Mesini)

Primi Anni Cinquanta – La fontanella della piazza esercitava una forte attrazione per i bambini: “la piazza era il nostro terreno di gioco e questo bastava” . (Archivio Origgi Mesini)

Fine Anni Quaranta – Il giovane ed ecclettico Ezio Longoni (a destra), in compagnia di un amico, non si lascia sfuggire l’occasione di farsi immortalare in abbigliamento da dandy. (Archivio Giordano Minora)

Di fianco alla vedovella era situata una panchina in pietra, affiancata da altre due più in là, tutte coperte da tre platani. La panchina era il punto d’incontro di varie tipologie di utenti a seconda dell’orario.
La mattina i pensionati a commentare i fatti del giorno, attraverso i titoli dei giornali esposti dall’edicola dell’Origgi, o i manifesti mortuari affissi sul muro di fronte. A fine mattinata accoglieva, in pausa pranzo con “schisceta”, i muratori di qualche cantiere vicino (si stava configurando il boom edilizio). Al pomeriggio era riserva delle varie bande di noi monelli. Ma il vero momento trionfale della panchina era, soprattutto nel periodo estivo, il far della sera. Dalla Cooperativa vicina i clienti  si spostavano, con in mano il ghiacciolo o la bottiglia di spuma, e la panchina diventava luogo di interminabili discussioni quasi esclusivamente sportive, calcio o ciclismo in particolare, dalle quali, spesso, nascevano spontanee sfide in bicicletta o partite a pallone tra scapoli e ammogliati. I promotori principali erano Franco Trentani, Carlo “Buleta “Allievi, Ettore Giudici, Ezio Longoni e Franco Nizzola. A tarda ora sulla panchina si materializzava una fauna assolutamente sconosciuta durante il giorno: erano i “perdaballe come li chiamava mio nonno veterinario. In pratica erano i “giovanotti“ che si incontravano dopo la chiusura dei bar, quindi del biliardo, delle carte e del televisore a parete, per dare sfogo ai racconti di leggendarie conquiste femminili, per la maggior parte mai avvenute.

Erano tutti onesti lavoratori e quindi, ad una cert’ora, tornavano a casa; rimanevano quei due o tre i cui dialoghi venivano immancabilmente interrotti da un “lazarun andii a cà, l’è no l’ura de fà i stupid” gridato da una finestra vicina. 

Fine Anni Quaranta Di fianco alla vedovella era situata una panchina in pietra, affiancata da altre due più in là, tutte coperte da tre platani.La panchina era il punto d’incontro di varie tipologie di utenti a seconda dell’orario.” (Archivio Origgi Mesini)

Ma il vero apogeo della panchina era il sabato. Nella seconda parte del pomeriggio diventava il ritrovo dei giovanotti per decidere le strategie della serata; le ragazze non partecipavano ancora, “non stava bene”, ci vorrà ancora qualche anno per poterle coinvolgere pubblicamente. Solo negli anni Sessanta saranno ‘ammesse’ con l’irrompere del fenomeno beat quando, nel tardo pomeriggio, Patrizia, la nipote del cavalier Origgi, piazzava un altoparlante fuori dal suo negozio di ottica -rivendita dischi e proponeva i 45 giri che andavano per la maggiore, si formavano cosi, sul marciapiede davanti alla vetrina, con la scusa dell’ascolto, dei capannelli di ragazzi e ragazze: un modo per approcciarsi nel nome della musica. Alla sera si verificava poi la metamorfosi alla dottor Jekyll: giovani operai o agricoltori lasciavano il loro habitus usuale e comparivano discutibili copie di Elvis Presley o del più ruspante nostrano Little Tony. Le mise si uniformavano tutte: pantaloni a zampa di elefante e giubbotti chiassosi, di prassi il ciuffo e la brillantina. Le più gettonate il Brylcreem e la Linetti pubblicizzata al Carosello dall’ispettore Rock, alias Cesare Polacco. Gli ispettori americani andavano di moda.
Dalla panchina partivano quindi con lo scooter o la motocicletta per andare a prendere lei che si presentava con gonna a palloncino, borsetta a secchiello e capelli cotonati, le più azzardate con pantaloni alla “pescatora“, con spacchetto finale. Di rigore il foulard in testa e l’orario di rientro.
La struttura predominante nella piazza era il Municipio; un edificio dei primi ‘900 con entrata direttamente sull’ampio slargo del marciapiede. Era la sede di ogni servizio comunale oltre che degli uffici del sindaco e della giunta; questo giustificava l’andirivieni continuo. La struttura occupava anche un fronte su un lato in via Matteotti dove, tuttora, è collocata la lapide con i nomi dei caduti e, sull’altro, dava su un giardinetto confinante con le scuole elementari, il cortile del retro confinava con via Ambrogio da Bollate. All’ingresso della piazza, fronte destro,c’era una vasca ovale in pietra con un getto centrale zampillante e i pesci rossi; era circondata da fronde di cespugli e dava all’ambiente un tocco ottocentesco. La sua presenza, soprattutto quella dei poveri pesci rossi, era diventato motivo di gioco per molti; alla fine degli anni Cinquanta venne quindi smantellata. Quell’angolo venne adibito come spazio per le palizzate in legno con i manifesti elettorali o utilizzato per allestire il palco di comizi elettorali o per il concerto estivo della banda, a conclusione della festa di Madonna in Campagna, la seconda domenica di luglio. Sul lato opposto, tra la farmacia Boveri e il cartolaio Origgi, c’era lo studio dentistico del dottor Bossi, personaggio dalla fisionomia particolare: aveva un occhio di vetro. Più tardi lo studio si trasferirà in via Sartirana. Di fronte, la piazza si snodava sullo slargo di ingresso dell’asilo Maria, un piccolo viottolo in ghiaietta portava al cancello principale, mentre un secondo accesso era in via Sartirana. Era gestito dalle suore della carità della congregazione di santa Giovanna Antida Thouret, indossavano   un ampio velo nero inamidato con interno bianco.

Fine Anni Quaranta nella piazza c’era una vasca ovale in pietra con un getto centrale zampillante e i pesci rossi; era circondata da fronde di cespugli e dava all’ambiente un tocco ottocentesco. La sua presenza, soprattutto quella dei poveri pesci rossi, era diventato motivo di gioco per molti” (Archivio Origgi Mesini)

Oltre alla cura della scuola materna, la domenica pomeriggio organizzavano l’oratorio femminile. Una autentica istituzione di questa struttura educativa è stata la celeberrima suor Fiorenza che ha insegnato a generazioni di ragazze i segreti del ricamo, taglio e cucito, prima di convolare a nozze. All’esterno dell’asilo, l’immancabile presenza fissa della Pampanini, nei mesi invernali vestita in nero,con il suo carrettino con caldarroste, con il grembiule bianco, in estate, per il gelato. Visione iconica a rappresentare il confortante tocco di dolcezza della piazza.

Angelo Argenteri.

“All’esterno dell’asilo, l’immancabile presenza fissa della Pampanini, nei mesi invernali vestita in nero, con il suo carrettino con caldarroste, con il grembiule bianco, in estate, per il gelato. Visione iconica a rappresentare il confortante tocco di dolcezza della piazza”. (Archivio Origgi Mesini)

La piazza ai giorni nostri

Con il trasferimento delle funzioni pubbliche dal vecchio municipio alla nuova mastodontica costruzione, sorta dalle ceneri del Cantun Sciatin, l’area ha subito un costante degrado sino ad essere ridotta al ruolo attuale di parcheggio, nel quale i pedoni devono districarsi per evitare le manovre dei veicoli in movimento. Questa trasformazione ha trovato inizialmente giustificazione nella carenza di parcheggi.

Con gli interventi urbanistici degli ultimi decenni si sono create nuove opportunità di sosta: l’area posteggio in fondo a via Garibaldi, l’area ex stazione Nord dietro la Fabbrica Borroni, l’area via Diaz /Casa del Popolo, il parcheggio sotterraneo del nuovo comune, la piazza del mercato.

Sarebbe perciò auspicabile che l’Amministrazione Comunale, considerato che è stato istituito un apposito “Assessorato alla Bellezza della Città”, si assuma l’impegno di riportare questo spazio all’originaria funzione storica, rendendolo fruibile ai soli pedoni, nell’ambito di una più consona e ordinata operazione di arredo urbano.

Giordano Minora

Queste immagini ci permettono una efficace visualizzazione dello stato attuale della piazza e di come apparirebbe liberata dalle autovetture e resa pedonabile. Foto © Giordano Minora

Originario di Bollate, è nato nel 1948. Unico figlio maschio degli otto del dottor Antonio, medico condotto per antonomasia dell’allora paese, ha seguito le orme paterne in ambito professionale. Specializzatosi a Parigi in chirurgia vascolare, è stato per anni direttore responsabile dell’unità operativa complessa  di questa specialità presso il polo universitario di  Pavia e, successivamente, presso quello di Lodi. Tra gli incarichi ricoperti, è stato titolare della cattedra di chirurgia vascolare all’università di Pavia. Attualmente è componente del nucleo di valutazione dell’azienda ospedaliera di Lodi. E’ autore di diverse pubblicazioni scientifiche in materia di patologia vascolare
ANGELO ARGENTERI

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari ,la fotografia, la storia locale e lo  sport   sono sempre stati al centro dei suoi interessi. .Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni  Bollate 100 anni di immagini (1978) , Una storia su due ruote (1989) Il Santuario della Fametta (2010) La Fabbrica dimenticata (2010) Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014) . Ha curato anche diverse mostre fotografiche fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015) La Fabbrica dimenticata (2010) I 40 anni di Radio ABC (1977). E’ tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.

Giordano Minora