25 APRILE 1945 – I GIORNI DELLA LIBERAZIONE A BOLLATE

25 aprile 1945 – L’immagine simbolo della Liberazione a Bollate: l’esultanza dei partigiani dal balcone della Casa del Fascio conquistata

IL 25 APRILE DAI BALCONI

Quel saluto con il pugno chiuso dal balcone, il 25 aprile 1945, segno di vittoria e di riconquistata libertà che si manifesta attraverso i cortei festosi per le vie del paese, le foto ricordo dei diversi protagonisti della lotta di liberazione davanti a luoghi simbolo, a sottolineare il  momento di unità , il fronte comune nel combattere l’oppressione fascista. Immagini che rendono l’idea di fondo, il desiderio di riprendersi una vita senza conflitti e lacerazioni. A testimoniare questo sentimento ecco apparire uno scatto icona: la celebrazione di un matrimonio subito dopo la liberazione.

E poi c’è il balcone di quest’anno. Causa pandemia le celebrazioni del 75 esimo anniversario non prevedono manifestazioni pubbliche, sono vissute singolarmente e allora trovano proprio nel terrazzo la piazza per socializzare, per fare memoria, per non dimenticare.  

Il 25 Aprile, giorno della luce

Sono nato nel 46, esattamente undici mesi dalla fine della guerra. I miei genitori si sono sposati il 30 aprile del 45: conservo ancora la foto ufficiale di matrimonio. Sul sagrato della chiesa S. Martino papà e mamma a braccetto, col vestito buono e di fianco a loro un partigiano in giacca, cravatta e mitra in spalla, quasi con funzione di guardia del corpo.

Ho partecipato (non sempre) alle manifestazioni ufficiali del 25 aprile a Bollate (ho da sempre ideali e idee di sinistra) con il loro rituale ormai consolidato: onore ai caduti, alzabandiera, squilli di tromba, corteo per le vie cittadine e discorso finale del sindaco o di altra figura istituzionale.

Confesso che da un pò di tempo il tutto mi sembra troppo ripetitivo, non coinvolgente, già visto e, consentitemi, per me un pò noioso.

Forse sarà dovuto all’età (74 anni), forse ai cambiamenti in corso nella società contemporanea (da cui non puoi non essere coinvolto), forse alla mancanza di oratori  nel vero senso della parola, che sappiano dare una scossa a chi li ascolta,  o forse a un po’ di tutte le motivazioni messe insieme.

Mai che nel discorso finale si faccia riferimento a un episodio vissuto allora o raccontato da qualcuno, un aneddoto sentito e riferito a un personaggio famoso o a una semplice persona conosciuta (o non) a un argomento insomma magari meno nobile di quelli normalmente citati ma più vicino, comprensibile e coinvolgente per il pubblico che ascolta.  Ricordo che in un film di Don Camillo e Peppone il titolo del tema con cui doveva cimentarsi Peppone per ottenere la licenza elementare era “Una persona che non dimenticherò mai” e lui parlava del pretino (Don Camillo) che durante la Resistenza gli aveva salvato la vita.  Ecco un semplice episodio vissuto, uno di quelli che vorrei ascoltare nei discorsi ufficiali.

30 aprile 1945 – Primo matrimonio dopo la Liberazione Agostino Pasi sposa Zita Borroni – A destra della sposa il partigiano Umberto Barlassina e a sinistra dello sposo, il giovane partigiano Eugenio Genovese

Il tema ricorrente è sempre la Resistenza, la liberazione, la repubblica fondata sul lavoro e la libertà, la solidarietà sociale e da ultimo la nascita dell’Europa in cui l’Italia si identifica.

Tutti valori più che condivisibili, per carità, ma voliamo anche un pò più basso e parliamo alla gente di argomenti diretti riguardanti la vita di tutti i giorni (e di quella passata), anche e soprattutto in occasioni come questa.

Non è che forse l’allontanamento dalla politica attiva da parte dei giovani (e non solo) sia dovuto in piccola parte anche a questo? A questa distanza dalla realtà quotidiana che non viene del tutto colta e capita da chi dovrebbe farlo?

Mia madre, che ha vissuto il periodo bellico ( era nata nel 1913) raccontava di episodi che l’avevano direttamente coinvolta: quando era stata convocata alla casa del fascio di Bollate (poi casa del popolo e ora  sede , finalmente, di una associazione per l’assistenza a persone disabili) perché sospettata di fare segnali all’aviazione alleata aprendo e chiudendo le persiane di casa ( cosa ovviamente non vera), oppure quando era andata da sola a Milano alla stazione centrale per vedere se fosse tornato papà dal fronte ed era stata fermata dai soldati nazisti ed interrogata.

Ricordava poi la sera del 25 aprile ’45 quando aveva potuto riaccendere, come tutti, la luce elettrica e mantenerla accesa nelle stanze senza pericolo: con un semplice gesto manuale sull’interruttore era tornata la luce nelle case, nei palazzi, nelle strade e nelle città, fino al giorno prima obbligate all’oscuramento notturno a causa dei bombardamenti alleati.

Oggi è un gesto che rientra nella routine quotidiana della vita e a cui nessuno presta più attenzione.

Questo ricordo mi ha sempre emozionato: quanto avrei voluto che qualche oratore, venutone a conoscenza, lo avesse citato nei suoi discorsi ufficiali!

Il prossimo 25 aprile non potrà essere festeggiato come negli anni passati stante l’emergenza in corso: allora io dico festeggiamolo così semplicemente, senza cerimonie allargate, ricordandolo come il giorno in cui si è riaccesa la luce, in cui è tornata la luce dopo anni di buio nero, guarda caso il colore simbolo della dittatura.

Gianmario Pasi

25 Aprile 1945 I giorni della liberazione

Selezione d’immagini a cura di Giordano Minora

Proveniente  dalla Casa del Fascio appena conquistata sfila la Brigata Garibaldi

La resistenza a Bollate

Dopo l’8 settembre 1943 a Bollate il senso di ribellione, con  il passaggio alla resistenza armata, è pressochè immediato, sia da parte degli ambienti della sinistra sia di quelli dell’antifascismo cattolico.

I gruppi legati alla sinistra lanciano la sfida già il 9 settembre quando Mario Rebosio, insieme ad alcuni compagni, si impossessa in modo incruento di sei moschetti appartenenti al corpo di guardia militare di stanza presso le scuole elementari di via Garibaldi. Nascoste alla meglio le armi, si attivano per stabilire contatti sia a Bollate che nei comuni limitrofi. Nel frattempo a Baranzate, all’inizio dell’autunno, si costituisce il primo nucleo del futuro distaccamento locale della 16^ brigata del Popolo, comandato prima da Luigi Tapparelli e in seguito da Arturo Allievi. All’inizio di Dicembre, nella prima operazione militare, un soldato tedesco viene bloccato ad Ospiate. Intanto, all’interno dello stabilimento della “Léon Beaux”, esponenti di estrazione comunista, socialista e cattolica cominciano a confrontarsi segretamente sui rispettivi indirizzi operativi, attuando allo stesso tempo ,e con una certa sistematicità di interventi,  un’opera di sabotaggio della produzione bellica.

Autoblindo entra in Bollate percorrendo la Via Roma nel giorno della Liberazione

La prima metà del 1944 fa registrare una crescente presenza partigiana a Bollate.

Nel mese di febbraio, tra Roserio e Vialba, il distaccamento di Baranzate attacca un gruppo di militi della brigata “Ettore Muti” e ne disarma due; in aprile, nelle vicinanze di Valera, analoga sorte tocca a due soldati tedeschi. Operazioni simili, a partire da inizio anno, vengono compiute con successo anche dal gruppo guidato da Rebosio che, a partire da giugno, si collegherà stabilmente con la 3^ brigata G.A.P. di Milano e con la III^ S.A.P.. Questa formazione avvia una lunga serie di sabotaggi alle linee telefoniche, interrompendo i collegamenti tra il centralino di Bollate e il comando tedesco insediato a Senago.

L’efficienza del servizio telefonico era una necessità fondamentale. Di conseguenza, nonostante l’autorità comunale cerchi di avvalorare l’ipotesi di una serie di incidenti fortuiti, ai cittadini bollatesi viene comminata una singolare punizione: per un mese, a turno e procedendo per ordine alfabetico, sono obbligati alla sorveglianza costante della linea stessa. L’ordine proviene dal comando tedesco di zona insediato a Valera di Arese, una presenza assai scomoda e pericolosa per i cittadini di Bollate che cominciano a subire l’intensificarsi di controlli e imposizioni.

Laddove la mano tedesca non riesce ad imporsi direttamente intervengono,in seconda battuta, i corpi militari della Repubblica Sociale. La loro presenza a Bollate non è di particolare rilevanza numerica, poche decine di uomini nel complesso della Casa del Fascio, ma non mancano di farsi spesso notare per zelo ed accanimento.  Si tratta della brigata nera “Aldo Resega” , comandata da Vito Angeloni e supportata dalla guardia nazionale  repubblicana agli ordini del professor Celio, meglio noto con il soprannome di “Occhiobello”, che spicca per attivismo nella cercare di individuare i nuclei locali vicini alla resistenza.

Militari americani accolti festosamente da ragazze bollatesi

Reparto partigiano in Via Garibaldi davanti all’Edicola Origgi

Reparto partigiano in Via Garibaldi davanti all’Edicola Origgi

Su probabile indicazione di questo personaggio l’ufficio politico della questura di Milano, nell’estate del 1944, arresta alcuni giovanissimi studenti, tutti di età compresa tra i 15 e i 18 anni, che avevano costituito il G.U.I. (Gruppo Unitario Irredentista), sigla da alcuni mesi scesa in campo con operazioni di volantinaggio. Per qualcuno di loro , è il caso dei fratelli Angelo e Eugenio Genovese (sarebbero poi entrati  a far parte della brigata del popolo), la brutta avventura si concluderà con un ammonizione e il rilascio immediato. Per Gianni Riccardi, milanese sfollato a Bollate, (il padre era direttore amministrativo del quotidiano cattolico “L’Italia”, che aveva trasferito le rotative di stampa presso l’oratorio parrocchiale) e per Vincenzo Attimo, leader riconosciuto del gruppo, si aprirà invece un lungo calvario che li porterà, dopo una breve permanenza nel carcere di san Vittore a Milano , alla tragico deportazione nei campi di concentramento in Germania. A seguito di questa retata e di altri analoghi episodi, il famigerato “Occhiobello” entra nel mirino delle formazioni partigiane cittadine, cominciano a studiare seriamente la possibilità di eliminarlo.

Con il declinare dell’estate 1944 le azioni di guerriglia e di sabotaggio a Bollate e dintorni si fanno più frequenti e audaci.

All’attivo della formazione di Rebosio, che dal gennaio 1945 diventerà distaccamento della 183^ Brigata Garibaldi S.A.P., figura l’azione compiuta a villa Arconati di Castellazzo, occupata da truppe tedesche : vengono sottratti tre sacchi di medicinali e ferri chirurgici.

Reparto partigiano presidia il Municipio

Con l’autunno 1944 è operativo un secondo distaccamento della 16^ brigata del Popolo, guidato da Vincenzo Strozzi e Giovanni Merler, che gravita nella zona di Bollate centro.

Le formazioni partigiane bollatesi, forti di un maggior numero di componenti e più attrezzate  negli armamenti,   estendono il proprio raggio di azione .

Il 23 marzo il distaccamento locale della brigata del Popolo mette a segno il disarmo di un soldato repubblichino a Ospiate; il 12 e 19 aprile azioni alla Cascina delle Monache, sede di un deposito tedesco, con la sottrazione di 12 bombe a mano e il disarmo di sei militari; Il 22 aprile , mediante un falso fonogramma, i “garibaldini” beffano il presidio locale della brigata nera: lo fanno partire al completo in direzione  Legnano. Qui sarà bloccato e disarmato dai partigiani del luogo che ne otterranno la resa senza colpo ferire.

Rientro a Bollate dei partigiani Enrico Brambilla e Pietro Negroni dopo aver fatto parte di una brigata partigiana attiva sui monti del Comasco. Con loro la staffetta Selika Ferrari. Foto scattata il 6 maggio 1945 in Via Garibaldi

Nel pomeriggio del 24 aprile, la stessa formazione partecipa ad uno scontro a fuoco nei pressi di Caronno dove vengono catturati 42 tedeschi, tre autocarri e un grosso quantitativo  di armi. Rientrati alla base attorno alle 22, i “garibaldini” prendono possesso della caserma e delle scuole, installandovi il loro quartier generale.

La liberazione di Bollate è compiuta.

La fucilazione, pochi giorni più tardi, dell’ex comandante della G.N.R.  Celio “Occhiobello”, in piazza san Francesco, sanziona in modo anche simbolico la chiusura definitiva di un’epoca storica.

Tessera del Corpo Volontari della Liberta rilasciata a Remo Merati

25 aprile 1946 – primo anniversario della Liberazione. Il corteo transita in Piazza San Francesco che  fu teatro dell’atto conclusivo della lotta di liberazione a Bollate nell’anno precedente

Si ringraziano per la gentile concessione delle immagini

Giulio Mesini /Archivio Origgi

Gianni Ravelli

Mariagrazia Merati

Sara Negroni

Antonio Pastore

Gianmario Pasi

Vincenzo Attimo- Lo zio Enzo

Vincenzo Attimo nasce a Milano nel giugno del 1927. Nel 1929 la famiglia si trasferisce a Bollate in una villetta della locale cooperativa del Fascio, in via Gramsci 6.

Dopo la crisi dovuta all’assassino di Matteotti nel 1924, il Fascismo era ormai regine.

Un’infanzia normale, come si addiceva a un ragazzo della piccola borghesia. Scuole normali e exursus altrettanto normale per un ragazzo della sua età. Balilla come dimostra un pugnale ancora conservato dalla famiglia, con inciso sul manico in legno ‘AEXY, Immer zusammer’ (forse l’auspicio di un futuro amore).

Studi superiori al Feltrinelli, e un amore smisurato per la chimica che lo portava il pomeriggio a frequentare la bottega dl farmacista dott. Boveri, in centro a Bollate a preparare ricette galeniche.

Dopo l’ 8 settembre 1943, tutto diventa più comfuso, l’armistizio e la nascita della nefanda Repubblica Sociale Italiana.

Incrocia, forse casualmente, Gianni Riccardi, di qualche anno più vecchio, e resta affascinato dalla sua ansia di libertà e giustizia sociale. Il padre era stato direttore del quotidiano cattolico l’Italia.

Pare, che il padre di Gianni, si nascondesse in qualche soffitta di Bollate. Editava un giornale clandestino, e i ragazzi divennero i ‘tipografi, e i distributori’ di tale giornale. Guida spirituale il mitico don Livio di Baranzate.

La tipografia clandestina era nella soffitta di via Gramsci 6. Come dimostrato da quanto ritrovato dal nipote anni dopo: qualche foglio, un ciclostile a manovella, inchiostro ormai rappreso.

Lui e Gianni distribuivano malamente e incautamente qualche foglio. Vincenzo che andava a lezioni di violino un giorno da uno spartito perse un foglio, lo raccolse un suo coetaneo e fece da delatore.

Gianni si dileguò e di lui si perse ogni notizia. Vincenzo fu convocato presso la stazione della locale Milizia e ‘interrogato’ dal comandante Occhiobello, che sarà poi giustiziato il 25 aprile del 1945.

Sentendosi braccato Vincenzo, si diede alla macchia in montagna e fu preso in carico dalla 52ma brigata partigiana Garibaldi.

Giovane e solo, colpito da febbre tifoide, tornò a Bollate. La delazione di un vicino allertò i fascisti e l’indomani Vincenzo fu portato S. Vittore per le ‘formalità del caso’.

A nulla valse l’interesse del cardinale Schuster, che aveva anticipato una sua liberazione il mattino seguente.

All’indomani la sorella Flora e il marito attesero la sua uscita, li avvertirono ore dopo che Vincenzo era stato trasferito a Fossoli, una sorta di magazzino smistamento di esseri umani verso i campi di sterminio in Germania.

Fu poi mandato al campo di Flosserburg nel giugno del 1944. Resistette bene, scriveva a casa e stava studiando il russo perché alcuni altri prigionieri erano di questa nazionalità.

A fine aprile incalzati dall’avanzata russa, i tedeschi trasferirono i prigionieri verso ovest, forse ritenendo gli Americani migliori carcerieri rispetto ai Russi.

Non lasciavano però indietro nessun prigioniero vivo.

In una dichiarazione di un capitano degli alpini, suo compagno di prigionia, fu riportato ’…Vincenzo cadde, mi chinai per aiutarlo ma fui duramente colpito alla schiena dal calcio del fucile di una guardia, mi alzai e sentii un colpo di arma da fuoco, non mi girai e proseguii, avevo capito che Vincenzo era morto….’.

Doveva essere circa l’inizio di maggio del 1945, a Milano si stavano spegnendo le feste del 25 aprile, e Vincenzo non compì mai i diciotto anni.

Nel 2003 i familiari vennero avvertiti che i resti di Vincenzo erano stati ritrovati.

Tornarono in una piccola cassetta di legno grezzo legato da uno spago piombato a Linate, presenti il sindaco Nizzola, l’assessore Boffi e due vigili, al suono del Silenzio. Mai un silenzio fu così rumoroso per i nostri cuori. Ora i resti di Vincenzo riposano nel Sacrario dei Caduti del Cimitero di Bollate.

Nota: le vicende qui riportate sono il frutto di ricordi ascoltati da bambini, e quindi affetti da qualche probabile inesattezza, ma a noi piace pensare siano veri, così come ci furono raccontati dalla nonna, dai nostri genitori, e dai tanti amici quando erano ancora in vita.

I nipoti

Vincenzo Attimo  sul cancello della sua abitazione  situata nel quartiere della villette  (attuale Via Gramsci)

IL MANOSCRITTO DI ELIA

Un sabato pomeriggio, nell’ottobre del 1997, mi suona il campanello di casa, uno dei miei figli, allora bambino, va ad aprire e dice “papà vogliono te”. Sulla porta mi si presenta Elia Mondelli,  ci conoscevamo , come si suol dire, di vista. Nessun convenevole, mi consegna un manoscritto di decine di pagine, a righe fittissime,  e sussurra  “senti, so che tu sei un giornalista , qui ho raccolto le memorie della mia esperienza in campo di concentramento mi piacerebbe farle conoscere. Dacci un’occhiata e fammi sapere, non voglio rubarti altro tempo” .

Nonostante la mia insistenza ad entrare prese la via delle scale,  “non voglio disturbarti di più, leggilo” e  se ne andò. Sorpreso e attonito al tempo stesso, cominciai a districarmi tra i fogli, soprattutto cercando di decifrare quella calligrafia minuta, a tratti poco comprensibile, quasi sconclusionata. Man mano che interpretavo il testo capivo che era stato scritto di getto e la composizione delle parole era legata agli stati d’animo vissuti durante le fasi del racconto. Descrittive nelle iniziali vicende belliche del colle San Martino, meno pacate e  riflessive al momento dell’arresto. Concitate, anche a causa di ”due schiaffoni”, all’ingresso della cella nel carcere milanese di san Vittore .

Più la vicenda umana si faceva drammatica, più la scrittura diventava nervosa, con frasi tronche e smozzicate quando affrontava i capitoli della deportazione: dapprima a Fossoli, con  l’assegnazione della baracca 18, “la casa degli intellettuali,  chiamata così  perché includeva avvocati, sacerdoti e politici.” e, successivamente,  con  grafia tremolante e quasi ad andamento a sghimbescio, nel racconto del  trasferimento in camion a Bolzano, “si viveva in un clima di angoscia continua”. Tuttavia, l’annotazione che maggiormente rivelava l’idea dell’uomo ferito è quella riferita all’arrivo al campo austriaco di  Mathausen: “venimmo fatti denudare completamente, ci fecero salire su degli sgabelli, ci spalmarono il corpo con una specie di liquido che provocava bruciore e venimmo tosati e disinfettanti”. Proprio la nudità, simbolo della spogliazione di ogni forma di dignità personale, ricorre spesso nella sua memoria, un senso di smarrimento perchè “la nudità era una delle imposizioni più umilianti”. Il trasferimento al sottocampo di Gusen  (doveva rappresentare l’anticamera del non ritorno )  è risultato  la sua salvezza. “Grazie al professor Aldo Carpi fui ripescato è assegnato a un nuovo blocco. Probabilmente per questa casualità sono riuscito a tornare a casa vivo”. 

L’arrivo degli alleati ,“i Kapò ci fecero riunire nel piazzale centrale e dopo pochi minuti entrò nel campo un enorme camion americano”, il segno visivo della salvezza. La scrittura si fa più lineare e nitida anche nei ricordi, in sintonia con il rasserenamento dell’umore. Il senso di amarezza torna protagonista nel ritorno a casa, non semplice, traumatico, “cercavo di far capire  che per me era meglio non parlare, avevo bisogno di staccare la spina” Poi  la  graduale  normalità e la voglia  di reagire,  di far conoscere la tragedia vissuta. Da qui l’idea del manoscritto . Una volta decifrato e resolo leggibile , ho passato l’incartamento a Antonio Pastore e agli amici del circolo politico culturale de il Laboratorio che si sono attivati per la pubblicazione . Paolo Gaiotto ha preso a cuore il diario, coinvolto emotivamente perché simile alla vicenda di Vincenzo Attimo , fratello di sua nonna,  lo ha elaborato e arricchito con documenti e ricerche storiche, ottenendo pure  il supporto dell’ANED, l’associazione nazionale ex deportati. Lo studio fotografico di Giordano e Filippo Bordegoni ha curato la fotocomposizione e la grafica e il manoscritto è diventato il volume “la visione di mia madre mi ha aiutato a vivere”. Frase del titolo che richiama un momento drammatico: nel campo di concentramento, prima di  essere spogliato, Elia  ha trovato nella cintura dei pantaloni una piccola foto della madre.  Immagine che gli ha dato la forza per affrontare e resistere dentro quel durissimo calvario.

Elia  Mondelli  Nato 8 marzo 1923 a Dergano (Milano)

Impiegato presso il cotonificio Solbiate di Cormano,, allo scoppiare della seconda guerra mondiale  si trasferisce in una azienda di Cusano Milanino , qui incontra i nuclei partigiani e  si impegna nella lotta di Liberazione . Arrestato a Ospitaletto di  Cormano . è richiuso nel carcere milanese di San Vittore.  Successivamente il trasferimento al campo di Fossoli e poco dopo la deportazione ,su carri bestiame ,destinazione Mathausen. dove ha subito torture e privazioni prima della liberazione da parte degli alleati.

L’8 febbraio 2020, davanti alla sua abitazione di via Mazzini, il Comune di Bollate e l’ANPI gli hanno dedicato la pietra di inciampo.

Elia Mondelli con libro e dedica – Foto © G. Minora

E nacque il gruppo Gianni Riccardi

Primi anni 70 , poteva essere il 71 o il 72. Finita la scuola media Superiore: chi il Liceo, chi l’Istituto Tecnico, chi la Ragioneria come me. Ingresso in Università e ci si sente grandi.

Tutto va, improvvisamente, stretto, soprattutto nella  accezione sociale del termine: i rapporti in famiglia,  dove i nostri genitori  che avendo passato la loro gioventù condividendola con la  guerra,  non capivano il motivo  del nostro disagio; l’università appena iniziata, dove si scontravano il “nuovo” tutto da inventare e tutto da scoprire e le convenzioni del passato appena trascorso, che rimanevano li quasi granitiche e ci apparivano sempre più anacronistiche; l’oratorio, per noi era una seconda casa, che improvvisamente era diventata da accogliente e rassicurante a (quasi) soffocante. Il 68 poi irruppe con tutto il furore iniziale, era nel pieno del vigore, ci attraeva con la sua carica rivoluzionaria che  trasformava radicalmente i costumi,  ma nello stesso tempo, ci intimoriva.

Buttarci nei movimenti studenteschi di allora ci sembrava fare un salto nel buio  a cui non eravamo preparati. Non parliamo dei movimenti politici nascenti, le ideologie che li ispiravano e tutto quel contesto di radicali cambiamenti , ci tentavano e nello stesso tempo ci spaventavano.

Fu in questo contesto, contraddittorio ed  effervescente,  che noi  amici ci si trovava nella cantina del Giovanni Rossetti dove papà Albino, ignaro, pensava che ci trovassimo solo per ingannare il tempo.

In quella cantina muoveva i primi passi l’idea di mettersi insieme, creare un gruppo spontaneo, come si chiamavano allora, per parlare di sociale e di politica.

Non delle ideologie,  allora tanto in voga a cui francamente eravamo poco inclini,  ma di problemi concreti, se volete spiccioli della nostra città, della nostra gente, della realtà che vivevamo tutti i giorni.  Oggi saremmo considerati come coloro i quali erano ispirati a un pragmatismo spinto.

Certo non ci sentivamo degli anacronistici giovanotti nati già vecchi che vivevano il loro tempo in maniera fuori moda: anche a noi piacevano le canzoni di rottura, la musica americana , le camicie a fiori e i pantaloni scampanati.   Anche noi amavamo  portare  i capelli  il più lunghi possibile. Ma quel che ci appassionava era la politica, partendo proprio dai problemi della nostra città.

E allora giù a scrivere su un “lucido” un manifesto, che poi veniva  eliografato (procedura fatta in copisteria a nostre spese) ,da attacchinare per le vie di Bollate nottetempo e sul quale  si denuciava che nel forno di Cassina Nuova si bruciava l’imbruciabile, o ancora ,vai col ciclostile,  rigorosamente a mano ed  alimentato ad  alcool , che volevamo far cantare e che invece ci sfornava faticosamente una copia alla volta di un volantino  per far sapere ai bollatesi che i pullman del Cattaneo erano sempre in ritardo e soprattutto saltavano le corse a loro piacimento.

Avevamo un nume tutelare in questo nostro cospirare: era quel Carletto Galimberti, bastian contrario ante litteram, che aveva capito che avevamo la voglia e forse la stoffa di seguire le sue  orme.

Bisognava dare un nome a quel gruppetto semiclandestino, un po’ sgangherato,  che cominciava a muovere i primi passi nell’agone cittadino.

Proprio il Carletto ci parlò di un certo Gianni Riccardi che durante la guerra viveva a Bollate.  Un ragazzotto come tanti figlio dell’allora direttore amministrativo  del quotidiano L’ITALIA, che sfollato da Milano  per via dei bombardamenti,  trovò ospitalità  con le rotative nel vecchio cinema Oratorio, ora ribattezzato sala Donadeo.

Ci raccontava il Carletto  che Gianni Riccardi partecipò ai primi moti della resistenza Bollatese, senza moschetto e munizioni, ma facendo la staffetta con messaggi per i partigiani che vivevano in clandestinità.

I Fascisti lo beccarono e sfortunatamente lo deportarono nel Campo di Concentramento di  FLOSSEMBURG in Germania e da li non tornò più.

La storia ci commosse e pensammo di intitolare a lui, ragazzo come noi, ispirato a idealità, il nostro  gruppo.

Nacque così il GRUPPO GIANNI RICCARDI quasi a voler far rivivere l’impegno di un ragazzo martire del fascismo che sacrificò la vita sull’altare dell’ideale.

Ci eravamo ripromessi di andare a cercare dove fosse sepolto ma non lo abbiamo mai fatto.

Fra qualche giorno è di nuovo il XXV Aprile e potete star certi che noi ,che in quella cantina cominciavamo a ragionare di politica, un pensiero a Gianni, come tutti gli anni, lo dedicheremo.

Ora con l’età avanzata  e con gli impegni lavorativi allentati,  chissà mai che,  quella promessa che ci eravamo fatti,  non la si possa mantenere.

GIOVANNI NIZZOLA – già sindaco di Bollate

Gianni Riccardi, nato a Torino il 21 ottobre 1929 trasferitosi a Bollate con la famiglia durante il fascismo, viene arrestato nel luglio del 1944  e rinchiuso nel carcere di san Vittore a Milano trasferito poi nel campo di concentramento tedesco di Flossemburg morirà, non ancora diciottenne, il 16 gennaio del 1945.

Gianni Riccardi

25 aprile 1945 i giorni della liberazione a Bollate

Film “Il sole sorge ancora” di Aldo Vergano – 1946

Paolo Nizzola, una vita a maneggiare notizie tra giornali , radio e tv,  tanto da farne un libro autobiografico “ Ho fatto solo il giornalista”.

Milanista da sempre, (ritiene che la sua più bella intervista l’abbia realizzata con Gianni Rivera), appassionato di ciclismo, (è coautore del libro “una storia su due ruote”), amante della musica jazz (è presidente dell’Associazione Bollate Jazz Meeting) .Gaudente a tavola, soprattutto  in buona compagnia.
Insomma, gran curioso di storie, di umani e di situazioni.

Paolo Nizzola

Giornalista

Ha sempre coltivato diverse passioni. La musica nei suoi aspetti più vari ,la fotografia, la storia locale e lo  sport   sono sempre stati al centro dei suoi interessi. .Una costante curiosità per tutto ciò che lo circonda lo ha portato a conoscere molti jazzisti italiani e americani o a scoprire aspetti dimenticati di quanto avvenuto in passato nella sua città. Ha collaborato alla realizzazione delle pubblicazioni  Bollate 100 anni di immagini (1978) , Una storia su due ruote (1989) Il Santuario della Fametta (2010) La Fabbrica dimenticata (2010) Il soggiorno a Bollate di Ada Negri (2014) . Ha curato anche diverse mostre fotografiche fra le quali La prima guerra mondiale nella memoria dei Bollatese (2015) La Fabbrica dimenticata (2010) I 40 anni di Radio ABC (1977). E’ tra i fondatori dell’Associazione Bollate Jazz Meeting (1994) di cui è segretario.

Giordano Minora

Ingegnere per caso, giornalista mancato, scrittore che non ha ancora deciso cosa scrivere. Una vita di scorribande, a far sempre cose nuove, una diversa dall’altra. Insegnante, assaltatore/postino, ricercatore CNR, ingegnere in società multinazionali, imprenditore, politico di terza classe, socialista da sempre e per sempre. Amore per il teatro, negli ultimi anni enfatizzato dalla fortunata frequentazione con Luca Ronconi ai tempi del Piccolo Teatro di Milano. Appassionato di musica classica sostiene che: ‘dopo Mozart è stato inutile scrivere musica’. Calcisticamente agnostico, ferrarista da sempre. Vanesio, si ritiene un eccellente chef. Amante di vini rossi e bollicine per accompagnare cibi. Sempre alla ricerca di persone nuove con le quali parlare, confrontarsi, discutere, litigare, bere e gustare cose golose.

Antonio Carlo Giuseppe Pastore

Ingegnere